Il dialogo interiore di un paziente “total locked in” si traduce in una riflessione intima sul rapporto tra l’uomo, la propria coscienza e il mondo che lo circonda
Cosa si prova ad essere vivi, coscienti ma murati dentro sé stessi? Il volume, “Tre centimetri dietro gli occhi”, scritto da Pino Donghi e da poco in libreria, come una variazione alla celebre domanda del filosofo Thomas Nagel, “Cosa si prova ad essere un pipistrello?” (What Is It Like to Be a Bat?), mette in scena, nella forma obbligata del monologo interiore, le riflessioni di un paziente “total locked-in”. Nella finzione letteraria, il protagonista si chiama Riccardo Borrazzini e, a differenza di Dominique Bauby, l’involontario protagonista che ha ispirato la riduzione cinematografica de “Lo scarabeo e la farfalla”, non ha nemmeno un sopracciglio, quello dell’occhio sinistro, che permetteva al giornalista francese colpito da ictus nel 1995 di comunicare con l’esterno. Un paziente “total locked-in” è murato dentro sé stesso, impossibilitato a comunicare. E come possiamo esserne sicuri? Non possiamo! A oggi questa è la riposta della scienza. O meglio: l’assenza di qualsivoglia prova dell’esistenza cosciente di un soggetto in coma vegetativo, non è una prova della sua assenza: noi non percepiamo la sua eventuale vigilie coscienza, lui o lei non sono in grado di comunicarcela, quindi è possibile, forse anche altamente probabile che “non esista più” ma non abbiamo alcuna possibilità di affermarlo con certezza. Questo è uno dei grandi e irrisolti problemi della ricerca neurofisiologica. Grande e terribile, nel senso della tragedia greca. Sicché, da questa condizione, Pino Donghi prova a considerare l’altrimenti inconcepibile determinazione del protagonista a rimanere vivo, il suo rifiuto della decisione di “staccare la spina”. Perché, chi mai vorrebbe vivere un’esperienza del genere? La risposta appare ovvia: nessuno! Ma poniamo il caso qualcuno si trovi in quella condizione e abbia l’assoluta convinzione che non c’è alcuna “miglior vita”, nessun aldilà, fatto di celestiali figure o demoni tremendi, che dopo la morte ci sia semplicemente il nulla, la fine: vorrebbe in quel caso che qualcuno staccasse la spina? La domanda del libro è però un’altra, in cosa può consistere quell’esperienza, cosa si prova? Come un esperimento di pensiero il monologo accompagna il lettore dentro l’esperienza del protagonista invitandolo a e una serie di riflessioni. La prima, la più ovvia, riguarda proprio la consapevolezza che condizioni come quella raccontata possano esistere. Le classificazioni cliniche parlano ancora di “coma irreversibile” ma la ricerca neuro scientifica ci avverte che, appunto, l’assenza e l’irreversibilità non può darsi con assoluta aritmetica certezza. è un tema difficile, disturbante ma se ne può discutere senza conoscerne la realtà delle più recenti acquisizioni? Di qui la seconda riflessione, forse la più profonda che emerge dalla lettura: perché ci ostiniamo a ragionare in base a convinzioni pre-confezionate? Nel dibattito pubblico, per non dire di quello “social”, prevale un dialogo tra sordi, composto di frasi fatte, di “nastri di parole” , di argomenti che le opposte fazioni si lanciano contro, come una sassaiola inarrestabile – che George Orwell denunciava con riferimento al discorso politico nella lingua inglese del suo tempo e che Pino Donghi ricorda nel suo romanzo. Nel confronto con le eterne tifoserie si perde il significato delle parole e le loro conseguenze: il dibattito che chiederebbe comprensione, eventualmente condivisione, si chiude ancora prima di aprirsi, nello scambio impossibile tra parole d’ordine e adesione fideistica. è questo l’invito principale che l’autore, insieme al suo protagonista, indirizzano al lettore: abbandonare, anche solo per qualche pagina, le convinzioni assolute, lasciarsi sorprendere dall’imprevisto, considerare ciò che appare impensabile: provare a pensarlo. Per poi magari tornare alle proprie convinzioni, che però saranno certamente più salde e proprio a misura del “gedanken experiment” al quale ci si è sottoposti: avere un pensiero libero chiede che questo accetti, almeno ogni tanto, una prova sperimentale.