Da qualche tempo a questa parte, ci siamo presi la briga di esaminare alcuni dei modi di dire più diffusi nella vita di tutti i giorni, che contengono la parola “pelle”, con l’intento di capire se a simili espressioni sia possibile far corrispondere anche delle verità scientifiche. Lo abbiamo fatto, a esempio, con la definizione “pelle sensibile” e anche con quella di “pelle grassa”. Stavolta prendiamo in considerazione la frase: “sentire a pelle”. Quante volte vi sarà capitato di dire: “quella persona mi è antipatica a pelle” o magari “quella casa non mi piaceva a pelle”. Ma è vero che con la pelle è possibile “sentire”? La scrittrice Alda Merini ha affermato una volta: “A pelle si sentono cose a cui le parole non sanno dare un nome”. Ed effettivamente è innegabile che attraverso la pelle e il tatto, oltre a “capire” il mondo che ci circonda, percepiamo anche delle emozioni e delle sensazioni che in qualche modo finiscono con l’influenzare il nostro comportamento. Sappiamo che ciò è dovuto, in massima parte, ai recettori, corpuscoli che sono distribuiti nei diversi strati del derma, da quello più superficiale a quello più profondo. Come è noto, ne esistono di diversi tipi, spesso denominati con il nome del loro scopritore ma soprattutto, ognuno di essi è programmato per svolgere un’azione di riconoscimento della realtà con cui entra in contatto. I più noti sono certamente quelli identificati dal medico tedesco Friedrich Merkel (1845-1919), che inizialmente li chiamò semplicemente “cellule del tatto”. Presenti soprattutto su labbra e palpebre, sono in grado di distinguere differenti stimoli cutanei anche se questi avvengono a distanze ridottissime (0,7 mm). Più o meno nello stesso periodo in cui Merkel faceva la sua scoperta, l’anatomista e fisiologo Georg Meissner (1829-1905) identificava, invece, una classe di recettori localizzati all’apice delle papille dermiche che hanno il ruolo di recepire e trasmettere a una fibra nervosa alcune informazioni più minute di un oggetto che “toccano”, come la sua trama o i bordi. Si deve al patologo e anatomista italiano Filippo Pacini (1812-1883), l’individuazione di alcuni corpuscoli che si trovano nella parte più profonda del derma, che si attivano quando lo stimolo pressorio ha una frequenza elevata (tra i 200 e i 300 hertz). Angelo Ruffini, biologo italiano che visse tra il 1864 e il 1929, identificò, infine, dei corpuscoli simili a terminazioni dendritiche, ricchi di terminazioni nervose che ricordano i rami di un albero. Il loro compito è quello di rispondere agli stimoli orizzontali, come lo stiramento delle fibre collagene, e sono alla base della sensazione del calore (si attivano infatti tra i 20° e i 45°C). Ebbene, tutti questi recettori, svolgono, come visto, ognuno una funzione diversa dall’altro. Ma pur essendo informazioni autonome e indipendenti, rappresentano l’insieme degli stimoli raccolti dalla pelle, che finisce con il confluire verso la materia grigia, dove integrati fra loro diventano un unico messaggio che, decodificato determina una reazione. Ciò che avviene, in pratica, è una raccolta di dati che finiscono con il costituire quello che comunemente viene considerato un ricordo. Se prendiamo in mano una pallina da tennis, i recettori all’interno della mano ci indicano di che materiale presumibilmente è composta, se è dura o morbida, se è porosa o liscia ecc. La seconda volta che ci capiterà di compiere la stessa azione, il processo mentale di conoscenza dell’oggetto che stringiamo tra le dita sarà ancora più veloce, per non dire immediato, poiché l’informazione è ormai acquisita a livello cerebrale e non c’è più bisogno che si riverifichi l’intero processo di memorizzazione. Siamo quindi sulla strada giusta per rispondere al nostro quesito di partenza. è vero, la pelle “sente” il mondo con cui entra in contatto, nel senso che gli da forma e lo riconosce avviando un processo di memorizzazione logico. Ma come si lega tutto ciò con il provare emozioni? La risposta è anche questa volta nell’anatomia e nella fisiologia cutanea. Sappiamo che nella cute sono presenti ben due sistemi complessi che ci permetto di percepire il prurito e il dolore: parliamo di particolari fibre nervose atte a registrare le due sensazioni di cui sopra. Per il prurito queste fibre sono presenti esclusivamente nella cute, per il dolore sono localizzate nella pelle ma anche nelle ossa, nei muscoli e nelle visceri. Questi due sistemi corrono anatomicamente paralleli e hanno tra loro un rapporto di simmetria/asimmetria: il prurito può tramutarsi in dolore ma non si verifica il contrario. Perché parliamo di questo? Perché è stato dimostrato che il ricordo del prurito o del dolore può contribuire a modificare le nostre reazioni rispetto a una possibile causa dei due fenomeni, arrivando a farci percepire delle sensazioni più forti di quelle che in realtà dovremmo provare. è il caso di coloro che hanno sofferto o soffrono di pelle sensibile o xerotica, o che comunque hanno convissuto per un certo periodo con patologie cutanee che prevedono una risposta infiammatoria particolarmente importante. Alcuni studi asiatici evidenziano come in tali soggetti, la memoria del prurito non cessi con la fine della sua causa e che anzi la sensazione “a pelle” in caso di sfioramento, resta ben più forte rispetto a soggetti che non hanno mai sofferto dello stesso disturbo. Insomma la pelle non solo ci spiega il mondo ma ci consente effettivamente di capire cosa attenderci dalle situazioni che viviamo e dalle persone con cui entriamo in contatto attraverso un meccanismo di memoria e ricezione degli stimoli. E proprio riguardo alla memoria vale la pena di raccontare un recente sviluppo nell’utilizzo delle cellule staminali. Si sta lavorando per tentare di utilizzare quelle che hanno partecipato alla riparazione di una ferita, in soggetti in cui il processo di guarigione deve ancora iniziare, per velocizzarlo. Come dire che la pelle può sfruttare la memoria biologica di altri pazienti. E questo apre scenari del tutto inediti per un futuro in cui si assisterà al trapianto esperienza.