
In Slovacchia nella notte tra il 13 e il 14 aprile 1950, la polizia politica e la milizia comunista fecero irruzione in 56 tra conventi, monasteri e istituti religiosi. L’azione K (da klaster, convento) si proponeva la chiusura di tutti i conventi maschili e l’internamento dei religiosi. L’azione venne dapprima diretta contro sei ordini religiosi: gesuiti, salesiani, francescani, redentoristi, consolatori del Gethsemani e basiliari. I religiosi erano accusati di attività antistatale. Vennero condotti in conventi già confiscati dal Regime e suddivisi in tre gruppi. I religiosi dai quali si era certi di ottenere un atteggiamento di favore verso il sistema furono smistati in varie parrocchie. I militari occuparono anche gli uffici postali presenti nelle vicinanze degli istituti per evitare che venissero fatti invii di lettere con richieste di aiuto. I conventi vennero saccheggiati e messi a disposizione del popolo. La liquidazione degli ordini ebbe un grande risvolto economico per il paese; quelli maschili possedevano 429 edifici e quelli femminili 670. Le autorità sequestrarono decine di milioni di corone depositati in libretti di risparmio. I conventi che ospitavano i religiosi considerati più reazionari erano dei veri e lager con sbarre alle finestre e filo spinato tutto intorno. Ogni giorno i religiosi venivano “rieducati” al nuovo regime. Durante i giorni feriali era loro permesso di celebrare una messa di mezz’ora, mentre la domenica alla messa canonica seguiva una rieducazione politica di tre ore. Contemporaneamente all’azione K venne organizzata l’azione P (da pravoslavi, ortodossa) che prevedeva il “ritorno” dei cattolici di rito orientale all’ortodossia, come era già stato fatto in Russia nel 1946 quando la Chiesa greco-cattolica era stata dichiarata fuorilegge. Anche gli istituti religiosi femminili subirono lo stesso trattamento di quelli maschili. Il 14 luglio 1950 vennero a essere definite le uniche due istituzioni aventi diritto di insegnamento teologico nel paese: la facoltà Cirillometodiana di Praga e quella di Bratislava. Venne introdotto l’insegnamento del marxismo-leninismo. Gli studenti che si rifiutavano di sottostare alle nuove disposizioni ricevevano la cartolina di chiamata alle armi entro le 24 ore. Il 27 novembre 1950 iniziò il processo-farsa contro alcuni religiosi accusati di tradimento e spionaggio. Tra questi: Stanislav Zela, vescovo ausiliario e vicario dell’arcidiocesi di Olomouc, condannato a 25 anni di carcere; Jan Anastaz Opasek, abate del convento benedettino di Brevnov, condannato all’ergastolo; Bohuslav S.Jarolimek, abate del convento di Stahov, condannato a 20 anni ma morto in carcere per maltrattamenti. In questo periodo storico si svolge il racconto autobiografico “Libertà nella non libertà – Diario dal carcere” (pubblicato dalla casa editrice Le Maree – 15 euro) di Antonie Hofmanova, terziaria francescana vissuta in un piccolo villaggio alle falde dei monti Sudeti che separano la Repubblica Ceca dalla Polonia e dalla Germania. Antonie era entrata in contatto con i circoli giovanili cattolici diventando catechista. Nel 1950, con la repressione attuata dal Regime venne arrestata e condannata a sei anni di carcere. Un periodo di isolamento che come scrive l’autrice “mi ha aiutata a trovare un chiaro senso all’esistenza e a riordinarne i valori. Questo poi mi è rimasto per il resto della vita. Non attaccarsi alle comodità, né alle cose materiali o alle cose senza valore che il mondo ci offre. Tutto ciò che mi serve lo possiedo e lo uso, ma non ne sono schiava. Il dono che mi ha fatto il carcere è questo, mi sono semplificata la vita”. Ammalatasi di tubercolosi venne rilasciata dopo tre anni con il divieto di insegnare catechismo. Il ritorno alla vita normale fu molto difficile; nonostante fosse infermiera trovò molte porte sbarrate per il suo passato di “rivoluzionaria” contro lo St ato riuscendo a trovare lavoro solo come sguattera presso lo stesso ospedale per il quale aveva lavorato in precedenza. Benché la situazione non fosse tra le più rosee, Antonie non perse mai la fiducia e la sua fede in Dio. La sua casa era sempre aperta anche quando lei era lontana. Lasciava la chiave sotto lo zerbino o sotto un vaso, un letto pronto, il frigorifero pieno di cibo e la teiera con il tè a disposizione di coloro che si trovavano a passare di lì e avessero bisogno. Tonicka (diminutivo con il quale era chiamata) aveva un sogno: una dimora che accogliesse i senza tetto. Andata in pensione riuscì a comprare una vecchia casa che ristrutturò con l’aiuto di amici e che mise a disposizione dei giovani perché avessero un luogo dove incontrarsi. Quando scoprì di essere ammalata di cancro, preparò l’annuncio di morte per 100 persone, al quale bisognava solo aggiungere la data finale. Durante gli ultimi giorni molte persone si avvicendarono al suo capezzale facendo turni di due ore. Morì il 14 giugno 2009. Il racconto autobiografico è fatto attraverso gli occhi di Jana, pseudonimo con il quale Antonie aveva deciso di chiamarsi, forse per meglio raccontare i disagi e le privazioni provate. L’insegnamento che se ne ricava è contenuto in una frase, il suo testamento morale: “Apprezzate sempre ogni cosa, perché anche ciò che è ovvio può non esserci”. Una bella lezione e un bel libro da non perdere.
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