del dott. Andrea Marliani, Presidente Fondatore della Società Italiana di Tricologia (S.I.Tri.)
Andiamo alla scoperta di una psicosi sempre più diffusa: la dismorfofobia ovvero il rifiuto di una parte del nostro corpo, in questo caso i capelli.
Sono sempre più frequenti i pazienti dermatologici e segnatamente tricologici, che si vedono affetti da alopecia o da disturbi cutanei importanti e gravi, ma che obiettivamente non ci sono! Una volta si sarebbe parlato di una “fissazione”. Questo è il quadro clinico della dismorfofobia, descritto, più di cento anni fa, dallo psichiatra italiano Enrico Morselli (1886). La definizione attuale di questa psicosi è “ossessione per un difetto immaginario dell’aspetto esteriore”, conosciuta in America come “Body Dismorphic Disorder”. La dismorfofobia è da considerare una depressione schizoide, con problemi di parcellizzazione del corpo.
1. Ma chi è il paziente dismorfofobico?
Di solito si tratta di un soggetto intelligente, istruito, spesso di classe elevata e con alte responsabilità sociali che però sviluppa un vero malessere nei confronti di qualche peculiarità del proprio corpo come, ed è il caso che interessa a noi, i capelli. Al solo sentirne parlare, un paziente affetto da dismorfofobia compie una vera metamorfosi: sgrana gli occhi, fissa la pupilla, perde di raziocinio e razionalità. La comparsa del disturbo avviene generalmente durante l’adolescenza ma la patologia può diventare cronica e riscontrarsi anche in età avanzata. La cultura attuale sta facendo crescere questa patologia, da problema di pochi a malattia di moltissimi, esasperata dalle immagini diffuse dai media, con le quali i giovani sono inevitabilmente costretti a confrontarsi con il risultato, pressochè scontato, di risultare perdenti. La preoccupazione di questo “difetto” comporta una significativa tensione emotiva: senso di disperazione, isolamento sociale e mancata vita di relazione. I pazienti pensano sempre e solo al loro problema, sviluppano comportamenti ritualistici ripetitivi e ossessivi, come il guardarsi alla specchio, l’acconciarsi in modo eccessivo e il porre frequenti domande per ottenere rassicurazioni dalla famiglia, dagli amici e dai medici. All’anamnesi si possono spesso riscontrare l’isolamento sociale e mancata vita di relazione: una famiglia ossessiva e amici stressanti. Il disturbo psichico più frequentemente associato alla dismorfofobia è la depressione, che si sviluppa però nella maggior parte dei pazienti in seguito alla comparsa della dismorfofobia e risulta essere spesso di per sè causa di un Effluvio Cronico che mantiene e aggrava lo stato depressivo. La consapevolezza del vero problema è variabile: può essere di grado elevato, inesistente o diversa nel tempo. La non-malattia dermatologica “dismorfofobia” comprende spesso anche disturbi sensitivi, sempre soggettivi, come dolore, bruciore o prurito nella sede corporea “affetta” sempre in assenza di patologia cutanea. Si arriva a situazioni di vero delirio, situazioni da considerare come: psicosi schizoidi ipocondriache monosintomatiche. Il trattamento dei pazienti con dismorfofobia è sempre difficile, lungo e anche delicato per il comportamento spesso irascibile, talvolta aggressivo e talora persino suicida… e il suicidio o il tentato suicidio in questi pazienti è una emergenza sociale, una epidemia silenziosa.
Questi soggetti richiedono una costante rassicurazione, telefonano frequentemente, prenotano visite da tutti gli specialisti di cui sono sempre insoddisfatti. Per il medico non preparato, i dismorfofobici possono essere causa di forte disagio, per esempio quando il paziente dice di essere calvo e magari ha più capelli del medico, che, a sua volta, non è calvo. Queste situazioni spesso inducono il medico a errori terapeutici anche gravi, come l’eccesso di terapia o la sottovalutazione del paziente. Che fare allora di fronte a un paziente che si definisce calvo ma non lo è, che magari, già visitato da un collega, sta assumendo finasteride, usando minoxidil e facendo già tutte le terapie possibili e anche quelle improbabili? Le terapie psicologiche e comportamentali si sono dimostrate deludenti. Anche perché questi pazienti le rifiutano perché certi di non averne alcun bisogno. Si ritiene che la terapia di scelta consista nel somministrare a lungo termine un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina a un dosaggio maggiore rispetto a quello usato per il trattamento della depressione.
Questi pazienti però quasi sempre rifiutano anche una terapia farmacologica. Occorrerà allora trovare il modo di farla accettare a dosaggi di compromesso, talvolta anche molto ridotti ai quali la grande maggioranza dei pazienti presenterà una risposta parziale ma pur sempre una diminuzione dell’ansia, della depressione, dell’ossessione e dei comportamenti ritualistici. A questo punto, comunemente, i pazienti saranno disposti ad adeguare la terapia a dosaggi più idonei.
Per fare accettare a questi soggetti una sia pur blanda iniziale terapia farmacologia occorrerà spesso ricorrere anche a una piccola “astuzia” psicologica: dopo l’esposizione da parte del paziente, il medico non deve mai negare l’esistenza del suo problema ma deve mandare messaggi verbali e non verbali di accettazione e condivisione. Negare il problema non porterebbe a un dialogo ma farebbe fuggire il paziente senza risolvere la sua ossessione e lo indurrebbe a cercare inutilmente un altro specialista. In sostanza il medico deve dare ragione al paziente, però una ragione con riserva, del tipo: “è vero che lei perde i capelli, ma …” e qui in base alla personalità del paziente si verbalizzano considerazioni collaterali, come: “vediamo di cercare insieme una soluzione… non deve però essere così ansioso perché l’ansia porta a perdere ancora più capelli, e deve essere curata”… In tal modo il problema si sposterà su un piano diverso e il farmaco diventa necessario contro la caduta dei capelli. In questa sorta di partita a scacchi è indispensabile, compiere sempre la prima mossa dando ragione al paziente perché come recita un vecchio adagio: la ragione è dei matti!