Tre fiori rossi per salvare il mondo

“Il fiore rosso” è un racconto di Garsin in cui l’autore descrive gli ultimi anni della vita di un uomo ricoverato come pazzo e riflette sulla sua vita

della Dott.ssa Gabriella La Rovere

Scritto nel 1882 e pubblicato un anno dopo, “Il fiore rosso” è il racconto più importante di Vsevolod Michajlovič Garšin (1855 – 1888). L’immagine di apertura è l’ingresso di un malato nell’ospedale psichiatrico: «In nome di Sua Maestà Imperiale, l’Imperatore Pietro I, dichiaro aperta l’ispezione di questo manicomio!». La sua voce è forte, chiara, penetrante e chi legge non può fare a meno di sorridere. D’altronde, nell’immaginario collettivo, l’azione del folle è spesso motivo di ilarità perché diretta, senza l’intermediazione delle norme condivise di comportamento. E quanti di noi, in particolari circostanze, non hanno pensato per un momento di “dare di matto” come unico modo per affermare i propri diritti. «Portatelo in reparto, a destra» dicono gli infermieri. «Lo so, lo so. Sono già stato qui con voi l’anno scorso. Stavamo ispezionando l’ospedale. So tutto e mi sarà difficile imbrogliare» risponde il malato. Queste prime battute lasciano poi il posto a un senso di angoscia crescente che deflagra nel finale. Chi accompagna il malato è stremato, a malapena si regge in piedi. Notti insonni e giorni altrettanto faticosi per controllare l’estrema agitazione, finché il malato viene costretto nella camicia di forza. Il manicomio ha un reparto maschile e uno femminile, ci sono due stanze riservate agli agitati: una con i materassi al muro, l’altra con le pareti di legno. La struttura pensata per ottanta persone, alla fine arriva ad ospitarne trecento. Nelle minuscole stanzucce, si trovavano quattro o cinque letti e, d’inverno, quando ai malati non era consentito uscire in giardino e le finestre, dietro le inferriate, erano sprangate, l’aria diventava tremendamente viziata. Il malato viene portato nel bagno che è anche peggio per la sporcizia sul pavimento, la scarsa luce e la presenza di due buche ovali per il lavaggio dei ricoverati. Garšin sa perfettamente cosa raccontare perché Il fiore rosso trae spunto dalla sua esperienza. Di animo sensibile, lo scrittore venne turbato da due eventi: la separazione dei suoi genitori e la guerra contro i Turchi nei Balcani alla quale partecipò come volontario. Al ritorno da questa esperienza venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Garšin aveva paura che la malattia mentale lo privasse della sua capacità di scrivere, così importante per lui. In una lettera alla madre del 9 ottobre 1881 scrisse: “Non posso fare affidamento sulla mia forza; non credo che sarò in grado di lavorare continuamente e con successo”. Quattro anni più tardi ammise in una lettera all’amico A. J. Gerd: “Le mie ambizioni letterarie sono molto grandi. Quello che ho scritto ha avuto successo secondo me […] Sento che solo in questo campo lavorerò con tutte le mie forze; inoltre, la questione della mia abilità letteraria è per me una questione di vita o di morte. Non posso tornare indietro. Proprio come una voce dice ad Assuero “Va! Va!” così qualcosa mi mette una penna nelle mani e mi dice “Scrivi! Scrivi!“. Purtroppo, le frequenti crisi nervose lo privarono della capacità di scrivere per lunghi periodi di tempo, aggravando la depressione che infine lo spinse a buttarsi nella tromba delle scale della propria abitazione a San Pietroburgo. Nel racconto, il giorno dopo, il protagonista ha un colloquio con lo psichiatra e viene ufficialmente inserito nel manicomio. Durante il giorno, i malati erano impegnati in lavori di manutenzione del giardino che abbondava di fiori di ogni tipo e colore. Qui, non lontano dalla veranda, crescevano tre piccoli papaveri di una specie particolare; erano molto più piccoli del normale e si distinguevano per il loro rosso vermiglio particolarmente intenso. Garšin ne rimane particolarmente colpito e immaginava che essi fossero portatori del suo male. Così decise di salvare l’Umanità andandoli a strappare. Concetto cardine de “Il fiore rosso” è la responsabilità individuale di fronte a situazioni sociali. Ognuno è custode del proprio fratello, chiamato a rispondere del disinteresse, colpevole di egoismo, malato di indolenza. Uomo è colui che persegue un obiettivo, che ha uno scopo nella vita, che comunque lascia un segno, un ricordo di sé agli altri. E così andare a prendere i tre papaveri diventa un’impresa eroica, oltre che epica. Il primo fiore viene reciso facilmente perché nessuno si aspetta un atto del genere: i malati hanno il compito di curare le aiuole. Nessuno lo vide, scavalcò l’aiuola, strappò il fiore e frettolosamente lo nascose sul petto sotto la camicia. Quando le foglie fresche e bagnate di rugiada toccarono il suo corpo, impallidì come un cadavere e pervaso dall’orrore spalancò gli occhi. Un sudore freddo gli bagnò la fronte. Le influenze venefiche cominciano a distruggere il suo corpo, comparve la febbre, dormiva pochissimo, camminava senza sosta, dimagrì a vista d’occhio. Dopo tre giorni, riusci a strappare il secondo fiore e a sfuggire al guardiano precipitandosi nella sua camera nascondendo la pianta sul petto. La lotta immaginaria ha nuovamente inizio. Il malato sentiva che dal fiore il male si snodava come lunghe serpi striscianti che lo avviluppavano, lo stringevano, gli schiacciavano le membra, gli impregnavano tutto il corpo col loro terribile contenuto. Mancava l’ultimo papavero, fiore del male, portatore di morte a causa dell’oppio. Il protagonista era debole, imbottito di farmaci e legato al letto. Raggiunse l’obiettivo superando enormi difficoltà come un supereroe. Guardò le stelle in cielo e a esse disse di avere pazienza perché presto sarà con loro. Appena arrivato alla pianta, la strappò con le poche forze rimaste, la ridusse in pezzetti, la calpestò e se la mise sul petto, là dove c’è il cuore. Tornato in camera e, ormai privo di sensi, si butta sul letto. Il mattino dopo lo trovarono morto. Il suo viso era tranquillo e felice; i lineamenti emaciati dalle labbra sottili e dagli occhi chiusi e infossati esprimevano come una gioia orgogliosa. Quando lo adagiarono sulla barella, tentarono di disserrare la mano per estrarre il fiore. Ma la mano si era irrigidita: si era portato il suo trofeo nella tomba. Questo racconto pone due domande: i matti sono in grado di fare gesti eroici? La percezione del male può essere considerata un’allucinazione? Probabilmente è solo considerando l’uomo e non la malattia che siamo in grado di rispondere con onestà intellettuale.