di Danilo Panicali
Avete mai sentito parlare della teoria di Gaia? Si tratta di un’ ipotesi suggestiva elaborata da James Lovelock nel 1979 nel suo libro “Gaia, A New Look at Life on Earth”, secondo cui il nostro pianeta andrebbe considerato come un essere vivente, dotato di un sistema nervoso centrale e di tutte le funzioni proprie di organismi complessi. Per arrivare a tale teoria, che definire olistica è forse poco, lo scienziato inglese era partito da alcune osservazioni effettuate sulla nostra atmosfera e su quella di altri due pianeti: Venere e Marte. Dai suoi studi era emerso che, mentre alcuni fenomeni apparivano costanti su questi ultimi, e soprattutto sempre come risultato di un processo di causa-effetto, sembravano invece essere assolutamente imprevedibili sul nostro. In particolare, ogni volta che l’equilibrio tra ossigeno e metano nella nostra atmosfera subiva delle alterazioni, subentrava sempre qualche fattore, come l’aumento di alcune tipologie di insetti, che aumentavano la produzione di aria respirabile, che ristabiliva i normali valori tra i due elementi. Da ciò la deduzione accennata: tutti gli organismi viventi, il clima, l’ambiente in cui viviamo, andrebbero considerati un tutto integrato: un unico super-organismo in cui l’attività dei viventi ne modifica gli aspetti fisici e questi a loro volta influiscono sull’evoluzione e sul mantenimento della vita. In questa ottica, quindi, l’essere umano non sarebbe all’apice di una piramide evolutiva, bensì andrebbe collocato in una visione circolare: l’uomo modifica l’ambiente e quest’ultimo muta per consentirgli di vivere.
Se un domani l’essere umano cessasse di esistere, allora cambierebbero anche le condizioni necessarie alla sua spavvivenza e probabilmente il pianeta diverrebbe sterile. Questa prospettiva, che divenne la bandiera degli ecologisti di mezzo mondo, oltre che la teorizzazione scientifica di molte discipline filosofiche e mediche orientali, apre il campo a una interessante osservazione. Sappiamo, per averlo sentito innumerevoli volte che, in caso di un conflitto nucleare che riducesse in cenere il pianeta e offuscasse i nostri cieli, rendendo la vita come la immaginiamo impossibile, gli unici superstiti sarebbero gli scarafaggi. Dal canto suo, la ricerca medica ci ha messo a conoscenza di come molti virus, per preservarsi, siano in grado di mutare, con una velocità che non ha eguali nel mondo animale, soprattutto se paragonata alla lentezza evolutiva della nostra specie. Insomma, organismi che siamo abituati a concepire inferiori sono dotati invece di uno spirito di adattamento superiore, e se è vero, come affermato da Lovelock, che il nostro tanto decantato ingegno è assolutamente secondario a quello che potremmo definire “l’istinto di sopravvivenza di Gaia”, allora ne viene che non solo l’uomo non primeggia, come detto, la famosa piramide evolutiva ma addirittura si trova in una delle ultime posizioni. Che dire: un bel ridimensionamento per quello che fino a ieri era considerato il re del mondo.