Tecno-stress e overload informativo

Siamo quotidianamente subissati da una mole enorme di informazioni e la paura di non processarle in tempo reale può generare ansia

Riportiamo un capitolo del libro “Non mi fido” (Edizioni Headmaster International) scritto dal Dott. Giorgio Bartolomucci, dedicato al rapporto tra psiche e tecnologia.
Fino a un secolo fa erano l’ignoranza e la povertà informativa a creare le diseguaglianze fra gli esseri umani, privilegiando chi aveva maggiori possibilità di essere informato. Nella società dell’informazione intensiva, mescolate a quelle che stiamo cercando, arrivano notizie e messaggi di cui non sempre abbiamo bisogno. Con la ridondanza informativa, anche sul posto di lavoro crescono l’insofferenza e lo stress. Ogni attività porta con sé un certo grado di fatica, fisica o psicologica, o una miscela delle due componenti. Con la rete si riesce a raggiungere le banche dati più distanti e la produzione d’informazione circolante ha raggiunto picchi mai visti in precedenza. Una novità importante che rafforza la democrazia, ma che può provocare una reazione di crescente disinteresse, perché non sempre sappiamo che fare di così tante notizie. L’uomo possiede un meccanismo di filtro che si basa sulla intenzionalità selettiva, in grado di lasciar passare solo alcuni messaggi e di scartarne altri. Questo filtro limita a priori il campo, prefissando determinati obiettivi e percorsi di ricerca. Messaggi, distanti dai suoi interessi, però, superano lo stesso la selezione, e quanto più aumenta la loro ridondanza tanto più cresce il fastidio. Essendo un problema relativamente recente, ci sono pochi studi sulla stanchezza da informazione digitale. Nel mondo della pubblicità e della comunicazione mediatica, è noto che superata una soglia critica il messaggio non viene quasi più percepito, trasformandosi in un fastidioso e noioso rumore di fondo. Sul posto di lavoro il tecno-stress digitale rappresenta una forma di fatica occupazionale che può dar luogo a varie forme di disagio. Lo stress può essere indotto sia dalla percezione dell’inadeguatezza verso le nuove tecnologie, sia dall’obbligo di un aggiornamento continuo che le imprese impongono ai loro dipendenti. La cultura del successo a tutti i costi spinge a farsi notare e cresce il timore di rimanere indietro, professionalmente, finanziariamente, socialmente. L’abuso di caffè può aumentare i sentimenti di preoccupazione e nervosismo, contribuendo allo sviluppo di ansia e avversione verso i software e i sistemi digitali su cui girano. Lo stress aumenta il disagio e i lavoratori, di fronte a eventuali novità, possono inizialmente mostrare curiosità, ma quando la novità cessa, tutto ritorna a essere fatica, noia, fastidio. Al sovraccarico delle nuove procedure informatiche, si aggiunge una marea di messaggi di posta elettronica cui bisogna rispondere per tenere il passo con colleghi, familiari, amici e conoscenti. Uno studio condotto in una grande azienda racconta che un impiegato visita in media 40 siti web al giorno, e cinque delle sei e-mail lasciate chiuse per 24 ore vengono ignorate definitivamente. Dopo un’interruzione per leggere i messaggi di posta elettronica, aziendali o privati, inviare una risposta o navigare in rete, s’impiegano 25 minuti per tornare all’attività lavorativa e, pur adottando software in grado di ordinare e dare priorità alla posta in arrivo, il continuo stop and go influisce non solo sulla produttività, ma anche sul benessere personale. A essere influenzati sono anche i processi decisionali. Se sul lavoro la risposta a un messaggio di posta elettronica non è tempestiva, il mittente si chiede legittimamente se il suo messaggio sia stato volontariamente ignorato; deviato automaticamente nella posta indesiderata; lasciato in attesa per una risposta successiva o semplicemente sommerso e oscurato da altre e-mail. L’incertezza creata da questo silenzio online può essere peggiore di una risposta ritardata. Nascono domande basate sulle esperienze passate: quanto tempo impiega solitamente il capo a rispondere alle e-mail? Dovrei disturbarlo con un follow-up? Meglio lasciare un messaggio di posta vocale o alla segretaria? Forse non è in ufficio? Nel frattempo, se il parere del superiore è assolutamente indispensabile, il progetto può restare sospeso per un periodo indefinito, mentre per la decisione basterebbero non più di un minuto o due. Senza considerare che, durante il lavoro, sul telefono cellulare non cessano i messaggi, WhatsApp o Telegram, Tweets, avvisi degli amici di Facebook e di Instagram, offerte commerciali, rassegne stampa, e offerte di lavoro da Linkedin. Per non parlare dei rapporti di ricerca online e le indagini di settore, blog di politici o colleghi, forum di discussione. Edward Hallowell, psichiatra ed esperto di disturbi da deficit di attenzione, ritiene che il tecno-stress nasce dalla consapevolezza di non poter elaborare le informazioni così velocemente come arrivano. In sintesi, la tecnologia sul posto di lavoro riduce l’attenzione e il quoziente d’intelligenza dei lavoratori, se distratti da e-mail e telefonate, cala di circa 10 punti. Se a ciò si aggiunge un rimprovero per il rallentamento della pratica o per non aver risposto con celerità alla posta elettronica, si spiega l’aumento dell’insofferenza e della depressione. Per ridurre il tecno-stress si può ricorrere a software progettati per distinguere i messaggi urgenti, quelli provenienti da mittenti la cui e-mail è solitamente utilizzata dal destinatario, e quelli considerati meno importanti. Questi criteri di classificazione, però, possono rendere più ansiosi gli utenti che, non fidandosi di questi sistemi, continuano a controllare i loro messaggi ritenuti non urgenti, per essere sicuri che non ci siano stati errori. Viene pertanto meno l’obiettivo di aiutare le persone a gestire e selezionare le informazioni in modo più efficiente. Non tutti si sentono stressati da un overload di informazioni, alcuni ne sono stimolati. Ma questo fa sorgere il sospetto che ci si possa trovare di fronte a una dipendenza dalle informazioni. Secondo un sondaggio americano, su 4.000 utenti di posta elettronica, il 46% si considerava dipendente dai messaggi. Il 60% degli intervistati controlla la posta elettronica ininterrottamente, finanche nel proprio bagno, il 15% in chiesa e l’11% la nasconde a un coniuge o a un altro membro della famiglia. L’85% degli intervistati ha dichiarato di portare il proprio laptop in vacanza. In un altro sondaggio condotto su 2.300 persone, un terzo dei messaggi ricevuti veniva giudicato non necessario, ma richiedeva circa due ore al giorno per leggerli e rispondere. Una quantità di tempo chiaramente sprecata. Un ultimo aspetto preoccupante è che i digital mobile rendono le informazioni sempre disponibili e ciò annulla i confini tra lavoro e casa, influenzando, in maniera negativa, le relazioni e la vita familiare. Non è facile quantificare i costi delle conseguenze del sovraccarico di informazioni, sotto forma di riduzione dell’efficienza, tempo perso per la gestione della posta elettronica non necessaria e per il recupero da interruzioni lavorative. Anche se lo stress legato alla tecnologia non rappresenta né una diffidenza né una fobia, con esse condivide alcuni sintomi come l’irritabilità, il mal di testa e la stanchezza a interagire con gli strumenti digitali. Condizioni che però possono evolvere in un attacco che gli anglosassoni chiamano computer rage, caratterizzato da un improvviso scatto di rabbia e una manifestazione acuta d’ansia nevrotica, con importanti e inevitabili conseguenze, specie in termini relazionali, di benessere, crescita e soddisfazione lavorativa.