Controllare le proprie emozioni più che umane e aiutare il paziente a esprimere le proprie preferenze aiuta la terapia
Sicuramente non è politicamente corretto dirlo, ma molti pazienti possono essere noiosi, petulanti, lamentosi, finanche fastidiosi. Nessun medico lo ammetterà pubblicamente, né lo scriverà o racconterà in un’intervista, ma la realtà è che, a tavola fra amici o in contesti privati, gli aneddoti relativi a proprie esperienze con malati o familiari, aggressivi o semplicemente invadenti, o presuntuosi di sapere tutto sulla propria malattia perché lo hanno letto su internet, sono molto abbondanti e oggetto di commenti, a dir poco, non eleganti. Molti film si sono concentrati sulla psicoterapia mostrando il terapeuta che, alle spalle del proprio paziente, ascolta svogliato il suo racconto, mangiando un panino o appisolandosi, mentre disteso sul divano e parlando delle proprie angosce e delle proprie piccole o grandi paure quotidiane, l’individuo pensa di essere oggetto di attenzione . Altri registi hanno ironizzato sui dialoghi che avvengono fra chirurghi al tavolo operatorio, ma in questo caso non si può certo imputare al paziente anestetizzato alcuna colpa, o responsabilità. A ognuno di noi è capitato, poi, di entrare in ambulatorio sperando di uscire il prima possibile e, quando un paziente comincia a parlare troppo, di volersi alzare in piedi e di fargli notare che in sala d’attesa ci sono altre persone ad aspettare. Nella gran parte di questi casi, non è solo una questione di sensibilità, o dell’inizio di una sindrome di burn-out, ma va riconosciuto che occuparsi per tanti anni della stessa malattia -nonostante ogni individuo sia una un caso a parte – è come dipingere ogni volta lo stesso quadro, avendo a disposizione gli stessi strumenti e colori – che si chiamino tecniche diagnostiche o terapie non fa differenza. I meccanismi che si determinano nello spazio tra il medico e i pazienti sono imprevedibili, e anche quando ci impegna nel mantenersi coerenti con la propria professionalità, non si ha la vaga idea su come si potrà reagire a fronte delle domande e delle richieste più assurde di chi ci sta affidando la sua persona alla ricerca di una cura, talvolta difficile o purtroppo impossibile. Non credo che la reazione del professionista sia sempre legata al caso o al suo stato d’animo del momento, ma certamente se il paziente comincia a raccontare che sta meglio, la visita s’indirizza verso una relazione più empatica e soddisfacente per entrambi. Quando invece, in più incontri successivi nel tempo, si portano all’attenzione il perdurare o l’aggravarsi dei sintomi, l’insoddisfazione nei riguardi delle cure prescritte e la sfiducia in un esito positivo, inevitabilmente cresce l’intolleranza di fronte a precedenti indicazioni disattese, a giudizi sconclusionati, comportamenti e richieste ingiustificate, specie se fatte con arroganza o pretese di eccezioni. Poco importa se dietro i sintomi somatici che vengono presentati talvolta c’è un disagio esistenziale del soggetto, spesso rimasto ignoto anche a lui. Forse basterebbe una valutazione più approfondita e interessata del malessere del paziente per dare risposte utili ai suoi reali bisogni, ma non sempre si ha il tempo o la voglia di farla. Perché quando la relazione tra paziente e terapeuta è incrinata da noia o dal senso d’impotenza, non si prova neanche a stimolare quella fiducia e senso di sicurezza che può essere alla base della cosiddetta alleanza terapeutica. Il medico, in questo contesto, rinuncia quasi a riflettere sulle sue reazioni di fronte ad atteggiamenti che reputa fastidiosi, senza provare a esaminare la motivazione della propria controreazione emotiva, e in questo modo il rischio è che si allontana la possibilità di entrare il più possibile in sintonia con la persona che comunque sta soffrendo per qualche cosa che ritiene grave, e che – va riconosciuto – sovente si esprime come può. In altre parole è il medico per primo a rinunciare a quel necessario rapporto di collaborazione in cui ci si impegna a pensare e ragionare insieme, per raggiungere un risultato realmente possibile. Facciamo un esempio concreto. Una persona malata da anni di psoriasi, oltre al suo disturbo cutaneo associa in sé il rischio di gravi comorbilità fisiche e di sintomi psicosociali, che aggravano la malattia e riducono significativamente la qualità della sua vita. Inoltre, non va sottovalutato anche la fatica sostanziale legato al tempo richiesto per il trattamento stesso. Infatti, se in circa l’80% dei casi di gravità lieve-moderata potrebbe bastare la sola terapia topica, nella metà dei casi le prescrizioni sono disattese. Il medico, peraltro, reagisce con insofferenza alle critiche dei pazienti sulla inefficacia delle cure prescritte specie in quelle In aree notoriamente più difficili e problematiche. è come se il giudizio poco felice lo riguardasse personalmente, che mettesse in discussione la sua competenza e professionalità. Vivere la riferita scarsa efficacia come una carenza di fiducia scatena meccanismi che, purtroppo, ostacolano ancor di più l’aderenza che, come è stato più volte detto, è invece un fattore chiave per l’alleanza terapeutica che facilita qualsiasi tipo di trattamento nel mondo reale. In conclusione: forse non esiste il paziente psoriasico ideale che segue in maniera disciplinata e ordinata i consigli e le terapie suggerite, così come è possibile che anche i medici si facciano condizionare dalle proprie simpatie ed emozioni, rapportandosi in maniera diversa, più o meno empatica e paziente con i propri malati. Non ci sono poi strategie uniche per aumentare l’aderenza e l’alleanza terapeutica, o che possano rinunciare a valutare insieme il dosaggio, la modalità di applicazione o di assunzione della formulazione topica o del farmaco sistemico. Quello che è certo è che il paziente con psoriasi è fra i più difficili da curare, perché è stanco della sua malattia, è sfiduciato sui possibili risultati e deluso dalle possibili e frequenti recidive. Aiutarlo a esprimere la sua rabbia e fargli accettare la sua condizione di malato cronico non è sempre facile. Può essere noioso, fastidioso o anche petulante, ma se si vuole continuare ad avere un rapporto terapeutico con lui c’è solo una strada: mostrargli quanto si valutino importanti i suoi giudizi, la sua esperienza con la malattia, i suoi desideri e preferenze individuali, sia per quanto riguarda il percorso terapeutico che per la scelta della formulazione, somministrazione e applicazione dei trattamenti ritenuti più adatti.