Sangue, omicidi, serial killer, investigazioni: queste le parole chiave che accomunano gran parte dei nuovi format che furoreggiano praticamente su tutte le reti televisive e online negli ultimi tempi. Che si tratti di serie documentaristiche, telefilm baciati dal successo internazionale come CSI o True Detective, o persino fumetti (eclatante il caso di Julia, serie bonelliana incentrata sulle indagini di una giovane criminologa disegnata con le fattezze di Haudrey Hepburn), tutti questi prodotti costituiscono l’ovvia testimonianza di quanto il fruitore medio di contenuti audio-visivi vada pazzo per certe tematiche. Un amore che travalica le frontiere e non è imputabile a una semplice questione culturale, coinvolgendo allo stesso modo Paesi molto distanti tra loro, non solo geograficamente, come Giappone, Usa, Italia, solo per citare quelli che maggiormente sfornano ogni anno prodotti del genere. Rimanendo nel nostro paese, un esempio evidente di come questa nuova tendenza abbia finito col permeare i palinsesti televisivi, è quello di “Chi l’ha visto?”. Nata come trasmissione che indagava, come si evince dal nome, sulle persone scomparse prefiggendosi lo scopo di rintracciarle grazie all’aiuto dei telespattatori, ha ormai assunto i connotati di un approfondimento giornalistico sui delitti insoluti. Ma cosa c’è alla base di questo interesse apparentemente morboso? Le motivazioni sono tante e per lo più di carattere psicologico. Prima di tutto l’attrazione nei confronti del male, inteso come il lato oscuro della personalità umana insito in ognuno di noi. L’industria dell’intrattenimento sembra cavalcare la fatidica domanda: cosa accade quando non riusciamo a frenare i nostri bassi istinti e travalichiamo la linea di confine tra ciò che è socialmente considerato un comportamento appropriato, lasciandoci guidare dalle emozioni più basse come l’odio, la vendetta o la gelosia. Secondariamente, al pari della visione di un horror, in cui l’elemento disturbante è rappresentato dall’ignoto, allo stesso modo guardare certi programmi ha un effetto “liberatorio”. Nel senso che vedendo sullo schermo la rappresentazione di qualcosa che ci spaventa noi viviamo, in modo edulcorato, la nostra paura, affrontandola e vincendola. Ciò giustificherebbe anche il cosiddetto “turismo dell’orrore”, viaggi effettuati sui luoghi in cui si sono svolti fatti di cronaca particolarmente segnanti e che hanno goduto più di altri di molta visibilità mediatica. Calcare, nel vero senso della parola, i passi di un omicida, permette di immedesimarsi tanto nella vittima che nel carnefice dando concretezza a un evento che altrimenti rimarrebbe, volente o nolente, nel campo della fantasia. Infine, non va dimenticato che esiste anche un effetto di appagamento nel seguire passo dopo passo le indagini del criminologo di turno arrivando alle sue stesse conclusioni (o magari arrivandoci appena lui le ha enunciate come un’inattesa illuminazione). La figura del detective, costituisce di per sé l’incarnazione dell’apice di questo piacere della scoperta. Il Deus ex machina che con il suo intervento riporta, ordine in una realtà che appare invece caotica e nella quale lo spettatore ha difficoltà, o paura appunto, a identificarsi. L’investigatore che capisce i misteri della mente e interpretandoli riesce a risolvere il caso è insomma l’eroe nelle fattezze del quale ci si vorrebbe trovare, o meglio, nel quale sentiamo il bisogno psicologico di affidare le nostre speranze di giustizia e normalità. E non per niente quasi sempre, che si tratti di un Perry Mason o per restare in termini televisivi, di un Tenente Colombo o di un Monk, la figura dell’investigatore è quella di una persona normale, quasi trasandata o con qualche menomazione fisica o disturbo mentale, in cui è semplice immedesimarsi insomma, che con il suo ingegno riesce a districare la matassa. O nel caso delle fiction moderne, che grazie ai suoi studi sulla mente umana e alle tecniche investigative più accurate messegli a disposizione dalla scienza, riesce a portare luce nelle tenebre dell’ignoto. Persa l’aura di eroicità quasi metafisica che aleggiava sui letterari archetipi del genere (Sherlock Holmes o prima di lui Monsiur Dupin) l’identificazione in simili figure è più immediata e sembra alla portata di tutti, basta studiare. Sarà questo il motivo che spinge migliaia di persone in Italia a iscriversi ogni anno alle facoltà di sociologia e criminologia. Il sogno non detto è di ricalcare le orme di simili personaggi, quello più immediato, di contribuire alla risoluzione di casi complessi sognando magari l’indagine della vita, quella da cui prima o poi ricaveranno anche un film. In questo contesto, una lettura illuminante per tanti aspiranti criminologi, può essere considerata l’appassionante “Golfo Insanguinato”, il nuovo libro di Fabio Delicato, edito da Turisa. Il testo è un vero e proprio excursus tra i fatti criminali più eclatanti del capoluogo campano, raccontati con dovizia di particolari, anche quelli più macabri, da uno studioso della materia criminale a 360 gradi. Esperto di criminologia, psicologo e psicopatologo forense, con una grande esperienza sul campo, soprattutto a Napoli, dove svolge anche il ruolo di CTU e perito presso il Tribunale di Napoli, Delicato effettua una narrazione puntuale di ogni singolo caso esaminato. Dalla sua trattazione sui media sino alle diverse metodologie d’indagine utilizzate dagli inquirenti per finire poi nelle aule di tribunale e alle linee di difesa, o viceversa, di accusa utilizzate dagli avvocati. Una analisi che spesso prende il via in forma romanzesca, offrendo una istantanea della realtà in cui muovevano i passi i diversi protagonisti del caso per poi addentrarsi nella descrizione più tecnica delle procedure investigative, e soffermarsi sulle patologie che via via vengono a galla quando si studia il comportamento criminale. Un caso per tutti, quello di Andrea Rea, meglio noto con l’appellativo di “mostro di Posillipo”. L’autore è bravo a condurre il lettore nella mente dell’omicida, esaminandone gli istinti e indagando sulle cause degli stessi. In tal modo arriva a elabora una diangosi, valutandone il comportamento come “parafilia”, un termine che per l’autore sostituisce l’inadatto “perversione sessuale”: un impulso, una fantasia, presente in un soggetto per almeno sei mesi, che provoca un’intensa eccitazione sessuale che si allontana dalla norma culturale attuale per focalizzarsi invece su oggetti inadeguati, sofferenza o umiliazione di se stessi o del partner, bambini o partner non consenzienti. Le dinamiche e i particolari del caso emersi durante l’indagine portano quindi Delicato a ragionare sul concetto di infermità e di non imputabilità totale o parziale del reo infermo (ex artt.85, 88 e 89 del codice penale) ma anche sul fenomeno dello “staging” ovvero dell’alterazione della scena del crimine che può avere un duplice significato: tentare di depistare le indagini o proteggere la vittima o la famiglia della vittima. Insomma, aspetti forse sottovalutati dalle fiction ma che costituiscono elementi imprescindibile dell’analisi investigativa odierna.