Il melanoma del cuoio capelluto è legato spesso a diagnosi tardive. In un convegno l’IMI ha lanciato un interessante appello
La cultura della prevenzione chiama a una maggiore consapevolezza delle patologie alle quali è esposto il tessuto più ampio del nostro organismo. Nella lotta a una forma di neoplasia subdola e in continua ascesa, la diagnosi tempestiva resta ancora l’unico punto di forza. I numeri raccontano che nel 2020 quasi 15 mila persone hanno sviluppato un melanoma e mettono in evidenza un incremento superiore al 20% rispetto all’anno precedente. Al di sotto dei 50 anni, è il secondo tumore della cute più frequente negli uomini e il terzo nelle donne, è aggressivo se non viene diagnosticato in fase precoce e manifesta un aumento di incidenza medio annuo dal 3 al 5% fino a raddoppiare in 10 anni. I numeri ci aiutano a capire quale sia l’ampiezza dal punto di vista epidemiologico di questo tipo di neoplasia. Ovviamente, il quadro si complica quando il melanoma fa la sua comparsa in distretti difficilmente esplorabili che non consentono un esame autoispettivo. Come il cuoio capelluto. Il fenomeno della sua localizzazione è stato al centro dell’attenzione in occasione del webinar promosso il 2 maggio scorso dal prof. Ignazio Stanganelli, presidente dell’Intergruppo Melanoma Italiano. Come ricordato da quest’ultimo, le osservazioni indicano che la manifestazione di melanomi nelle regioni della testa e del collo ha un’incidenza tra il 20% e il 30% dei casi e un ritardo diagnostico prelude spesso a una prognosi infausta. A essere colpiti sono soprattutto gli uomini – in particolare anziani calvi – con una frequenza di 6 volte superiore rispetto alle donne e, generalmente, si tratta di pazienti che presentano segni di danni solari cronici e anamnesi che evidenziano pregressi carcinomi cutanei. Ha spiegato Stanganelli: “Per questo raccomandiamo una prevenzione primaria mirata a identificare i fattori di rischi endogeni. Se non possiamo cambiare i nostri geni, possiamo però modificare le nostre abitudini: ricordiamo che la radiazione ultravioletta è ormai riconosciuta come un carcinogeno completo, al pari del fumo di sigaretta. Opportuna, quindi, una prevenzione solare già a partire dall’infanzia”. E proprio in ambito di prevenzione primaria, l’Imi sta promuovendo da molti anni la campagna “Il sole per amico” rivolta a tutte le scuole italiane, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione. Obiettivo: sensibilizzare gli studenti – e le loro famiglie – a una corretta esposizione ai raggi ultravioletti. “La prevenzione secondaria, invece – continua Stanganelli – prevede una diagnosi precoce con il riconoscimento dei segnali di sospetto su una formazione nevica. Il percorso diagnostico segue lo stesso iter previsto per le altre formazioni neviche: una visita dermatologica associata a dermatoscopia per valutare con maggior precisione strutture e colori non visibili a occhio nudo. E nel caso la lesione desti sospetti, si raccomanda una biopsia. Imprescindibile, poi, è l’analisi dello spessore. Se in presenza di melanomi sottili – al di sotto di 1 millimetro – la risoluzione è favorevole nel 90% dei casi, con l’aumentare del rilievo il quadro clinico diventa più complesso. Con una diagnosi di melanoma più avanzato che interessa anche i linfonodi regionali, il rischio di ripresa della malattia va dal 30 al 70%”. Ma che tipo di melanoma è quello che compare sul cuoio capelluto? “La letteratura ci consente di individuare – continua Stanganelli – due pattern di crescita: uno a evoluzione lenta su una cute con alopecia ippocratica e fotodanneggiata, e l’altro che interessa soggetti più giovani con una folta massa di capelli. Se nel primo caso è più facile individuare la lesione, sottoporla a valutazione dermatoscopica e procedere poi con l’escissione, nel secondo la presenza di capelli compromette l’identificazione di una formazione sospetta, determinando spesso ritardo diagnostico. E qui è doveroso fare chiarezza e ricordare che gli studi hanno smentito recisamente quel paradigma che associava la presenza di peli alla natura benigna di una formazione nevica perché anche in quell’area può verificarsi la degenerazione di un neo. Anzi, la presenza della capigliatura può provocare, oltre al ritardo diagnostico, anche altre complicanze: non dimentichiamo che, biologicamente, la zona del cuoio capelluto è legata a una complessa interazione di circuiti vascolari”. In buona sostanza, le evidenze scientifiche oggi inducono a identificare due scenari diversi nello sviluppo del melanoma. I soggetti anziani con alopecia androgenetica e cute fotodanneggiata sembrano interessati tendenzialmente da melanomi superficiali a crescita lenta che, localizzati su aree visibili, possono essere intercettati precocemente prima di diventare invasivi. Altro decorso si prospetta, invece, per i melanomi a carico del cuoio capelluto di pazienti giovani: queste lesioni, nascoste dalla capigliatura, molto spesso devono fare i conti con una diagnosi non tempestiva o possono manifestare una particolare aggressività. Inoltre, gli studi dimostrano che esiste una correlazione diretta tra la presenza di nevi sul cuoio capelluto e nevi sul tronco: chi presenta numerose formazioni neviche sul cuoio capelluto, verosimilmente, ne ha anche sul tronco, e questi sembrano i soggetti più a rischio. Mentre il nostro Paese non dispone ancora di una casistica riferita al melanoma del cuoio capelluto, negli Stati Uniti sono i numeri a dire che rappresenta il 7% di tutti i melanomi. In cifre, si contano più di 11 mila lesioni a danno di soggetti prevalentemente di sesso maschile che presentano spesso erosione dell’epidermide, un aumentato spessore del melanoma – lo spessore di Breslow- e una prognosi di sopravvivenza che scende dal 90 al 60%”. Ed è a questo punto che, durante l’incontro, Stanganelli lancia un importante appello che noi rilanciamo da queste pagine chiedendo ai nostri lettori di diffonderlo tra i propri pazienti. Chiamati ad avere un livello di attenzione nell’intercettare lesioni nascoste sono oggi gli operatori del mondo dell’estetica e del benessere, figure che per la loro professione hanno modo di impattare su questo tipo di formazioni. “Estetisti, parrucchieri, tatuatori, podologi e tutti i professionisti non medical skin care – spiega Stanganelli – possono diventare nostri alleati e avere un ruolo di primi attori al fianco di infermieri e fisioterapisti nella diagnosi precoce di un melanoma, nell’individuare un campanello d’allarme, investiti di un compito importante che può salvare vite”. Dal canto loro, però, queste figure professionali chiedono corsi di formazione mirati, un training adeguato che fornisca loro le conoscenze necessarie nella sorveglianza cutanea e nel riconoscimento della macchia dubbia. Poche regole, stringenti ma sufficienti per avere il colpo d’occhio nell’individuare una formazione sospetta e segnalarla allo specialista di riferimento. In sintesi, basta spiegare che è importante osservare le regole dell’ABCDE (Vedi il box) e dell’EFC. Quest’ultima è traslata dall’alfabeto inglese, e riguarda l’elevazione della lesione che nei casi più aggressivi spicca con consistenza dura sul cuoio capelluto, proprio come un brutto anatroccolo. “Ad ogni buon conto – conclude Stanganelli – le terapie che vengono somministrate oggi, dopo la rimozione chirurgica della lesione, hanno dimostrato effetti favorevoli nel contrastare l’insorgenza di recidive. E scenari più confortanti si sono aperti anche nella cura del melanoma metastatico, forma ad alto tasso di mortalità che fino a qualche anno fa coincideva con una aspettativa di vita di soli 6 -7 mesi dalla diagnosi”. Delle incoraggianti risposte alle terapie mediche che, anche laddove il tumore si sia fatto strada, possono cambiare la storia naturale di questa malattia, ha parlato quindi, durante lo stesso incontro, Mario Mandalà, professore in Oncologia Medica presso l’Università degli Studi di Perugia. “Se fino a dieci anni fa con una diagnosi di melanoma metastatico, a un anno di distanza solo il 20% dei pazienti sopravviveva – ha spiegato Mandalà – due rivoluzioni culturali hanno contrassegnato questi ultimi anni. La prima è legata allo studio dei meccanismi molecolari che sono alla base dell’insorgenza e della diffusione del melanoma e, in particolare, l’identificazione di una mutazione del gene Braf per la quale disponiamo di farmaci mirati. In buona sostanza, nei casi di melanoma con mutazione, possiamo somministrare farmaci per bocca bersaglio-molecolari che permettono una sopravvivenza a 5 anni del 40 per cento. L’altro passo in avanti riguarda la comprensione del ruolo importante del sistema immunitario che, nel controllo della malattia, subisce l’azione disarmante scatenata da sostanze prodotte dal tumore. Oggi abbiamo farmaci in grado di contrastare l’effetto inibente del tumore e riattivare la risposta immunitaria, prolungando la sopravvivenza a 5 anni nel 50% dei casi”. Questa, dunque, la buona notizia. Quella cattiva riguarda, invece, l’altro 50% dei pazienti che non rispondono alle cure o sviluppano resistenze ai farmaci. Per loro, per chi perde la propria la battaglia contro questa malattia, la ricerca medico-scientifica deve continuare a portare avanti il suo impegno quotidiano, nella sfida di apporre sempre nuovi tasselli nel grande e complesso puzzle della conoscenza.
Intervista al Prof. Ignazio Stanganelli, direttore del Centro di Dermatologia Oncologica, IRCCS Istituto Scientifico Romagnolo per lo studio e la cura nei tumori e Presidente IMI – Intergruppo Melanoma Italiano