Esistono medici più aperti alle novità proposte dall’Industria Farmaceutica e altri che non amano cambiare i propri protocolli .
Prescrivere correttamente un farmaco significa molto più che conoscerne la formulazione e principi attivi, o ricordare quanto riportato nel foglietto illustrativo in termini di posologia. Una prescrizione razionale di una medicina, infatti, non è solo finalizzata alla cura, ma deve anche riuscire a ridurre ed evitare l’eventualità che la terapia e il farmaco stesso creino nuovi problemi. Superfluo ricordare che i medici dovrebbero, al momento della prescrizione, aver richiesto tutte le informazioni cliniche del paziente: documentazione clinica accurata e completa che contenga un’attenta anamnesi farmacologica nell’ottica di rilevare allergie, intolleranze, interazioni con altri farmaci o con erbe medicinali, consumo di prodotti da banco, di alcool e abitudini alimentari del paziente, condizioni cliniche che sconsigliano l’uso di determinati farmaci o impongono modificazioni di dosaggio. Molto di tutto questo, nella prassi quotidiana, passa spesso in secondo ordine e ciò che il medico si aspetta è che la medicina sia assunta nel modo corretto, per evitare le cosiddette patologie iatrogene.
Da una serie di studi sul tema della prescrizione farmaceutica, emergono almeno 4 tipologie di medici. La prima può essere definita dei medici “impegnati” che riservano un’alta attenzione al lavoro di ricerca di nuove opportunità di cura, coltivano relazioni con Università, sono inseriti nella vita scientifica e culturale della propria specialità; hanno un approccio vigile verso le riviste mediche e una visione positiva nei riguardi delle potenzialità della ricerca. Emerge, in altri termini, una figura di medico in piena attività clinica, con un panorama e una molteplicità di interessi ampia e ricca, per cui provare nuove molecole e formulazioni o partecipare a uno studio clinico sono opportunità per sperimentare e per impegnarsi in campi nuovi del sapere, alla ricerca di nuovi risultati terapeutici da raggiungere. Un secondo gruppo è quello dei medici “rinnovabili”, perché raggruppa professionisti il cui profilo mette in luce l’interesse a impegnarsi in nuovi ambiti della cura. Sono medici che non temono di esplorare nuovi protocolli e originali campi di sperimentazione offerte dalla ricerca farmaceutica.
Si tratta di una prospettiva attiva che riscuote adesioni e approvazioni anche dalle Aziende interessate a valorizzare le potenzialità degli specialisti, indipendentemente dalla loro età anagrafica. Un terzo gruppo può definirsi più “tradizionale” nel senso che risponde in modo abbastanza fedele alla figura di medico che non cerca sperimentazioni o occasioni per provare le novità che gli vengono proposte, né sul versante della prevenzione che della terapia. È una persona relativamente soddisfatta della propria esperienza, che apparentemente non cerca alcun cambiamento, poco disponibile a rispondere a eventuali nuovi stimoli o a coinvolgersi in studi clinici originali. Questo genere di profilo è molto congruo con lo stereotipo del medico che non si mette in discussione, che trova le sue radici proprio nei modelli culturali del passato, quando cioè la professione era esaltata come depositaria assoluta del sapere medico.
L’ultimo profilo raccoglie i medici che si possono definire “disimpegnati”, con un atteggiamento in genere negativo e di scetticismo verso nuovi farmaci. Poche relazioni quindi con gli ambienti della farmaceutica e delle riviste mediche; scarso impegno nell’approfondimento delle novità nell’ambito della cura; pochi interessi scientifici, indipendentemente dai campi della medicina; poche aspettative nei confronti di alcune patologie croniche considerate inguaribili. In questa tipologia di medici si registra anche un’insoddisfazione di fondo nei riguardi del proprio ruolo. Emerge una quasi assoluta “rinuncia”, alle novità, come se certi nuovi protocolli si immaginassero già inutili e fonti di ulteriori disagi, in quanto incapaci di dare risposta alla sofferenza dei pazienti, oggetto di continue indagini e prove superflue. Questa classificazione non può lasciare indifferenti tutti coloro che operano responsabilmente nel campo della cura e fornisce spunti utili e importanti per inquadrare le modalità di informazioni sul farmaco. Specie rispetto alle categorie dei medici “tradizionali” e “disimpegnati”, che sono quelli che per evitare errori e limitare gli effetti indesiderati, rafforzano la propria certezza nei protocolli terapeutici più sicuri, anche se in parte superati. Questo atteggiamento, chiaramente conservativo, in nome della sicurezza porta però con sé un paio di conseguenze.
Da una parte si tende a ripetere nel tempo la prescrizione che nella propria casistica si è rivelata più efficace e minor fonte d’imprevisti, cristallizzando nel proprio armamentario terapeutico la posologia e i nomi dei farmaci da consigliare, e dall’altra si diventa più restii a prendere in considerazione, nella scelta dei medicinali da suggerire, le nuove molecole, nuovi dosaggi e perfino formulazioni diverse pur contenenti principi attivi già ben conosciuti. Non esistono studi che riescano a spiegare, nell’ambito dell’approccio terapeutico, le motivazioni psicologiche che spingono il medico verso un atteggiamento conservativo, diciamo di sicurezza, o più aperto e innovativo riguardo alle proposte alternative che arrivano dalle aziende farmaceutiche. Il problema è multifattoriale e più componenti, esperienziali, caratteriali, psicologiche ed emotive sono coinvolte. Un campo di ricerca ancora molto aperto cui andrebbe data maggiore attenzione.