del Dott. Alberto Volponi
Patto per la salute ovvero delle buone intenzioni
Un servizio sanitario sempre più condizionato dalle regole dell’economia sembra aver perso ormai quella che era la sua vocazione e il suo fine ultimo: l’assistenza garantita.
Le Regioni, il Ministero della Salute e quello dell’Economia hanno firmato un accordo programmatico per la sanità per il triennio 2014-2016. La più soddisfatta di tutti sembra essere il ministro Lorenzin che, con una certa enfasi, ha affermato: “Con questo accordo garantiamo lo sviluppo del sistema pubblico e mettiamo in sicurezza la sanità”. Detto dal ministro della Salute che fra quelli coinvolti nella partita conta meno, e nel silenzio degli altri, qualche dubbio sulla forza taumaturgica dell’evento è legittimo. In verità il “Patto” è l’ulteriore, ciclico tentativo di rendere il diritto alla salute costituzionalmente garantito, un diritto fruibile in maniera uguale su tutto il territorio nazionale. Il tentativo è nobile e va apprezzato ma non è sufficiente. Prima va sciolto il nodo dell’articolo, delle prerogative regionali e di come armonizzare l’autonomia delle Regioni, voluta dalla Costituzione, con il rispetto dei diritti, uguali e universali, che la stessa Costituzione sancisce. Siamo al gioco dell’oca, si ritorna sempre alla casella di partenza: la Costituzione. Lo stesso “Patto” ci conferma, nel proporre alcune soluzioni organizzative e gestionali, una sanità italiana a più velocità. Mentre, infatti, propone un numero unico per tutte le emergenze, il 112, che ingloberebbe anche il 118, la Regione Lazio da notizia di un accordo con la Lombardia per importare da questa software e metodologia per la realizzazione di un 112 laziale. Ed ancora: nel Patto si punta sull’assistenza territoriale attraverso maxi ambulatori di medici di famiglia e di pediatri aperti dodici ore al giorno. Questo per ridurre il flusso verso i pronti soccorso ospedalieri e decongestionare gli ospedali. Molte regioni hanno preso analoghe iniziative arrivando all’istituzione di case per la salute e di ospedali di comunità ma i risultati sembrano essere modesti.
La Regione Lazio, negli stessi giorni, annunciava la firma di un protocollo con i medici di famiglia per l’apertura di 51 ambulatori, che resteranno aperti anche nei week-end. Il costo dovrebbe aggirarsi sui dieci milioni di euro. Soldi spesi in più rispetto ai costi delle convenzioni con i medici di famiglia, i pediatri e delle guardie mediche festive e notturne che dovrebbero, ognuno per la sua parte ,assicurare quell’assistenza che oggi si vuole concentrare in 51 “stazioncine della salute” (ma non saranno anche poche per gli oltre 5 milioni di abitanti della regione?). Sugli ospedali gli interventi previsti dal Patto, interventi già in essere in molte regioni, sembrano più incisivi, come spesso accade. Saranno fissati standard minimi di attività dei reparti, in relazione alle loro specialità. Gli standard dovrebbero essere calibrati su un mix fra numero di prestazioni e qualità delle stesse. Il sospetto, e in parte dove il sistema è già in vigore è più di un sospetto, è che il numero degli interventi sarà l’elemento predominante, scollegati dall’esito degli stessi. In sintesi si cerca di concentrare le prestazioni specialistiche omologhe in un numero ridotto di reparti per cui avremo reparti, radicalizzando il concetto, che faranno solo coli-cistectomie perché ne hanno fatte sempre tante e altri solo i tumori del colon. Altro che libertà di scelta del luogo di cura e rapporto fiduciario con il medico, altro che medicina olistica. Se i reparti ospedalieri non dovessero tenere questi standard saranno semplicemente chiusi! Non manca la solita minaccia di licenziamento del Direttore Generale se non ha i bilanci in ordine e non assicura i LEA. Ma qui si entra nel capitolo delle “grida manzoniane”. Il fondo sanitario viene fissato in 109,9 miliardi nel 2014,112 nel 2015, 115,4 nel 2016. Complessivamente una manovra, se così la vogliamo chiamare, a forte impronta economicistica. Del resto anche il ministero della salute si sta attrezzando: il prossimo direttore generale alla programmazione sarà scelto fra gli aspiranti con la laurea in economia. Il monito di Federico Caffè: “agli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili” è sempre più lontano nel tempo e inascoltato. Infine il piatto forte dei ticket che verranno cambiati da una commissione e sarà il reddito l’elemento discriminante. Il principio è sacrosanto: partecipare alla spesa sanitaria in ragione della propria ricchezza. Non avendo un sistema fiscale equo, anzi un’evasione da 300 miliardi l’anno, tanto da far pensare che metà italiani pagano le tasse, garantendo servizi, per l’altra metà che non le paga o le paga in maniera autoridotta, far pagare il ticket in base al reddito finisce con il generare un’altra ingiustizia. Il problema accompagna l’Italia dalla sua nascita. Chiudo con una parentesi personale,scusandomi. Oltre quaranta anni fa, studente di medicina alla Sapienza di Roma, non potei usufruire dell’ospitalità della Casa dello Studente perché il reddito dei miei genitori dipendenti statali, superava la soglia prevista per l’accesso. Ciò non impedì a uno studente del mio corso di essere ammesso al beneficio, gratuitamente, come è ovvio, ancorché figlio di un noto professionista di Reggio Calabria. Ricordo, il caro collega, con una punta di invidia, al volante di una fiammante duetto resa immortale, in quegli anni da Dustin Hoffman nel film “Il laureato” … e noi solo al cinema potevamo “annà” , evidentemente col tram.