L’aumento del ricorso alle medicine tradizionali è segno delle difficoltà della medicina ufficiale, mentre le direttive europee impongono una regolamentazione
di Giorgio Bartolomucci
Nonostante i grandi successi raggiunti dalla ricerca scientifica, negli ultimi decenni, nel mondo Occidentale, una larga parte della popolazione ha mostrato una significativa perdita di fiducia sia nella medicina ufficiale che nella classe medica, rivolgendosi con sempre maggior frequenza a forme di medicina diverse che, in attesa di una necessaria regolamentazione legislativa, non sappiamo ancora come chiamare. In primis le abbiamo definite tradizionali, poi medicine dolci o alternative, per lasciare il passo agli aggettivi, non convenzionali e complementari: termini generici che oggi contraddistinguono soprattutto discipline mediche generalmente non ancora insegnate all’universita’: agopuntura, omeopatia, chiropratica, osteopatia, omotossicologia, naturopatia, medicina tradizionale cinese e, non ultima, l’ayurveda. Pratiche sinora tollerate all’interno del sistema di cura tradizionale, distanti fra loro ma che, agli occhi degli increduli e degli scettici, paradossalmente, un fattore in comune sembrano averlo: la loro validita’ non è sempre accettata o lo è solo parzialmente. Tanto da non giustificarne il riconoscimento giuridico, la rimborsabilita’ e finanche la dignita’ di scienza medica, soprattutto per i caratteri filosofici, esoterici, etnici e non scientifici che, per lo più banalizzati, inevitabilmente rischiano di annullare secoli di grande tradizione e di esperienza clinica. Una esperienza e una validita’ terapeutica che una certa comunita’ scientifica pretenderebbe, poi, di misurare usando protocolli clinici e modelli statistico epidemiologici fondati sui grandi numeri, che non tengono in giusta considerazione gli aspetti più caratteristici di molte di queste pratiche: l’individualita’ irripetibile di ognuno dei pazienti e l’approccio olistico e preventivo. Ecco spiegata la difficoltà a mettersi d’accordo su un aggettivo, medicine alternative o non convenzionali, sicuramente non essenziale ai fini di un atteso e irrinunciabile chiarimento normativo. Che non possiamo considerare un semplice desiderio di classificazione ne, più concretamente, la miope volonta’ di sottoporre queste pratiche solo a una ferrea regolamentazione, ma come l’intenzione di garantire ai medici e ai pazienti la più ampia liberta’ possibile di scelta terapeutica – assicurando il più elevato livello di sicurezza e l’informazione più corretta sull’innocuita’, la qualita’, l’efficacia e i rischi eventuali e, allo stesso tempo, come l’esigenza di protezione da persone non qualificate. Diversi paesi europei, quali Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania, Francia, Austria, hanno già dato riconoscimento giuridico alle discipline mediche non convenzionali, adempiendo alle varie direttive e risoluzioni che negli anni sono state emanate dalla UE. Il Consiglio d’Europa ha infatti approvato una risoluzione con la quale invita gli Stati membri a regolarizzare lo status delle medicine non convenzionali, in modo che queste possano essere inserite a pieno titolo nei Servizi Sanitari Nazionali rispondendo alla sempre più crescente richiesta dei cittadini. Nel nostro Paese, invece, a parte le poche eccezioni dei piani sanitari di alcune regioni (Lombardia e Trentino Alto Adige), siamo in presenza di una totale deregolamentazione e di una semplice presa d’atto dell’attivita’ dei terapeuti non convenzionali, medici e non. Nello spirito di una burocrazia mai del tutto sconfitta, nelle varie proposte di legge nazionale e regionali preparate in Italia, si legge che sarebbero previste decine di Commissioni cui affidare lo studio e la regolamentazione sia degli ambiti scientifici e terapeutici di ciascuna delle medicine non convenzionali, sia dei requisiti per l’istituzione di inevitabili corsi di formazione, di registri di iscrizione professionali, nonchè di procedure per la registrazione dei medicinali e dei prodotti merceologici utilizzati, di cui andrebbero definiti anche i criteri di sicurezza, efficacia e qualita’, necessari per l’autorizzazione all’immissione in commercio (farmaci omeopatici, farmaci fitoterapici e farmaci dietetici). Così come le prove farmacologiche, tossicologiche e cliniche essenziali ai fini dell’autorizzazione. Sta a dire anni di lavoro e migliaia di norme e regolamenti che, pur se necessari, non faranno altro che complicare il quadro, senza incidere sul nocciolo del problema. Secondo i dati Istat nel 1999 le persone che in Italia utilizzavano i principali trattamenti non convenzionali erano più del 15% dell’intera popolazione, queste percentuali sono aumentate nel 2001 al 20% e la crescita è stata costante negli anni successivi. Quali sono le cause della sfiducia che molti cittadini mostrano nei riguardi della medicina occidentale? Varie ricerche hanno dimostrato che i pazienti che si rivolgono alla medicina non convenzionale considerano che il rapporto con il loro medico ufficiale si è ormai burocratizzato, che si sia persa quella visione globale dell’individuo a vantaggio di una iperspecializzazione della diagnosi, sempre più strumentale, della cura del sintomo, sempre più affidata a farmaci mirati e selettivi. Inoltre ha anche una grande importanza l’aumento dell’incidenza di patologie a forte componente psicosomatica, nei riguardi delle quali le terapie disponibili danno risultati limitati, che spingerebbe quindi verso forme di terapie più umanizzate, a forte componente individuale. La questione, come si vede, non è semplice e non riguarda solo l’Italia ma anche l’Europa intera. Seconda le stime del Parlamento Europeo, i cittadini degli Stati membri che utilizzano terapie non convenzionali ammonterebbero al 20 – 50% della popolazione generale, con punte in Francia dove gli utenti regolari di queste metodiche rappresentano quasi il 50% della collettivita’. Sono numerosi anche i medici che ritengono che i diversi metodi di trattamento e di approccio alla salute e alla malattia non si escludano reciprocamente ma possano essere invece utilizzati in modo complementare. In questa direzione l’orientamento diffuso in campo medico sostiene che non bisogna più parlare di una medicina convenzionale e una non convenzionale, o alternativa, ma che il paziente deve essere al centro di un percorso terapeutico che deve avvalersi di tutte le possibili cure disponibili, purchè siano efficaci, sicure e comportino rischi noti e ben valutati. E vengano praticate da medici esperti e non da ciarlatani o guaritori improvvisati. Non si dovrebbe più parlare, allora, di medicine non convenzionali, ma di discipline complementari che il medico può utilizzare, al fine della massima tutela della salute dei propri pazienti, secondo scienza e coscienza. Chiarito il rebus semantico, dall’alternativa alla complementarita’, non nascondiamoci che la complessita’ della materia e le notevoli differenze fra ognuna delle discipline fanno sì che sembra quasi impossibile trattare questa materia in maniera unitaria. Cerchiamo di spiegarci. Per esempio, cosa hanno in comune fra loro tecniche quali l’Agopuntura e l’Omeopatia, la Fitoterapia e l’Ayurveda? Teoricamente parlando c’è molto poco, ognuna ha poi la propria storia, spesso millenaria, la propria spiritualita’, principi e valori filosofici di tutto rispetto, ma diversi per origine e per significato. Da non accomunare quindi in un concetto unico, superficialmente omologato in un campo che, pretestuosamente, è facile far sconfinare più nella filosofia, nello spiritualismo e talvolta nell’empirismo, che nella medicina e nell’arte della cura e della guarigione. Ognuna di essa va invece preservata nella propria unicita’ e tradizione.
L’Ayurveda è preventiva: attenti agli improvvisatori
La notizia di cronaca che l’anno passato ha coinvolto un medico ayurvedico italiano accusato di omicidio colposo per la morte di un bimbo con fibrosi cistica, ha portato alla ribalta il fatto che in Italia spesso i problemi non sono causati dalle discipline di derivazione orientale, ma da una inadeguata formazione degli operatori. Sanitari e non, che le offrono a un pubblico per lo più incapace di distinguere fra veri corsi di studio di livello universitario e diplomi ottenuti nel fine settimana. Io sono un medico ayurvedico e tradizionale, laureato all’universita’ di Pavia e poi specializzato in India. Sono consulente dell’ambasciata indiana a Roma e più volte mi è stato chiesto di partecipare come docente di corsi per conto dell’Istituto Superiore di Sanita’. In termini generale avrei quindi difficoltà, per esempio, a suggerire di fidarsi di medici ayurvedici che si siano formati fuori dall’India, dove la disciplina si studia all’universita’ per cinque anni e mezzo. Come possono essere seri corsi che si concludono in pochi mesi? La medicina ayurvedica non sostituisce mai quella tradizionale in caso di malattie serie. è dunque evidente che alla base del decesso del bambino, appena ricordato, ci sia un palese errore: resta da stabilire se è stato il medico o la famiglia a spingere il bimbo ad abbandonare le cure tradizionali. Le spiegazioni, a mio avviso, sono abbastanza semplici: o si tratta di una persona in malafede, o non conosce nè la medicina tradizionale, nè quella ayurvedica che da più di 3mila anni non è una medicina curativa ma preventiva. Piu’ uno stile di vita, un approccio al viver sano, che una fonte di terapie e farmaci per guarire. E in ogni caso non è nè professionale e nè corretto suggerire a un paziente di abbandonare la ‘evidence based medicinè di fronte a patologie serie come le malattie genetiche. Lo stesso vale per tumori, malattie cardiovascolari, diabete o ipertensione, ma anche infezioni, allergie, problemi polmonari e respiratori. è per questo che noi medici ayurvedici dobbiamo essere molto attenti quando parliamo ai pazienti. Per contro, la medicina indiana può essere un’alternativa in caso di gastriti lievi, stitichezza, mal di testa, ma sempre dopo esami diagnostici tradizionali che abbiano escluso un’origine grave dei disturbi in questione. In altri casi poi, la medicina ayurvedica può affiancare quella tradizionale, per intervenire su alcuni disturbi o effetti collaterali. Tenendo presente che, se usata in maniera sbagliata o inappropriata, può essere molto pericolosa perché in genere le terapie si prescrivono per tempi più lunghi rispetto ai farmaci. Il mio messaggio vuole essere chiaro ed è quello di tenersi alla larga da sedicenti esperti, poichè la medicina ayurvedica resta una disciplina seria, arrivata a noi dai nostri antenati, che affonda le sue radici su principi che si dimostrano validi. Oggi ribaditi e certificati dalla nuova branca della medicina, la psiconeuroendocrinologia che unisce alcune discipline per misurare il benessere della persona. Secondo questa filosofia applicata alla scienza, la buona salute è l’effetto di un equilibrio tra gli aspetti neurologici, psichici, endocrinologici e immunologici della persona. Niente più e niente meno di quanto professa da millenni la medicina ayurvedica.
dott.ssa Nancy Mylaador