Spesso i concorsi contrastano con i principi della legalità, della trasparenza e dell’imparzialità e con l’art. 34 della Costituzione
del dott. Saverio Corasaniti, Presidente TAR in pensione
In un precedente articolo ho provato a descrivere la crescente situazione di mafiosità in cui un cittadino del sud, onesto e rispettoso della legge, fatica a conservare dignità e libertà nel suo territorio. Alla mancanza di volontà politica per affrontare seriamente il fenomeno mafioso si deve sommare, poi, la non collaborazione dei cittadini che, terrorizzati, sono umanamente impossibilitati a denunciare i giornalieri misfatti che l’ipocrisia della politica sembra non vedere nella loro gravità. Una non cooperazione derivante, anche, dalla sensazione di abbandono che aggrava il senso di impotenza di fronte alla criminalità che, dal suo canto, si sente e diventa sempre più potente. Eppure, la tranquillizzante presenza autoritativa dello Stato/ordinamento (effettività di potere) determinerebbe un circuito virtuoso in grado di ridare fiducia alle Istituzioni locali e far decollare molte di quelle iniziative economiche, specie nel settore turistico, dell’agricoltura e dell’artigianato, che muoiono sul nascere in quanto attanagliate soprattutto dalle mafie. Fino a oggi, per la presenza imperante del fenomeno mafioso e con la politica irresponsabile che finge di non vederlo, la disoccupazione è aumentata con particolare riferimento a giovani laureati anche di talento del Sud che, ove non emigrano per inseguire un degno lavoro, sono spesso facile preda delle mafie stesse. I giovani cercano il futuro dove lo vedono, ma purtroppo non lo vedono nel proprio territorio in quanto l’Italia non sembra apprezzarli, ne sfrutta il loro ingegno e le loro invenzioni, non offre loro adeguate potenzialità anche economiche, non li tutela. Il risultato è che così soprattutto il Mezzogiorno perde i suoi figli migliori, che formati in Italia, inseguono i loro sogni all’estero con risultati spesso straordinari. Come paese, non si può più convivere con queste asfissianti criticità, e in primis, sopportare che le persone perbene siano succube della criminalità, della corruzione e dell’enorme evasione fiscale. Negatività distruttive in quanto produttive di immenso debito pubblico, della carenza del welfare, dell’emergenza sociale delle disuguaglianze, dell’esodo all’estero dei giovani. Parlare delle mafie e degli atteggiamenti mafiosi è pertanto importante in quanto se su di loro si spegnessero i riflettori, finirebbero per estinguersi definitivamente i diritti di libertà e la dignità di tante persone specie in quelle regioni che sostanzialmente sono in mano alla criminalità organizzata e nelle quali non vale la regola dell’ubi societas ibi ius. Una drammatica espressione di mafiosità può considerarsi anche il c.d. baronaggio universitario. Un fenomeno atavico messo in luce anche da molte Procure della Repubblica in relazione a scuole di specializzazione, docenze e posti di rilievo negli ospedali universitari che vengono assegnati tramite concorsi non trasparenti e intrecci politico/economici/corporativi.Un mal costume che porta all’esclusione di tanti giovani eccellenti laureati, estranei al sistema, cui viene impedito di ricoprire incarichi e posti adeguati alla loro preparazione. Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, dalle predette indagini il territorio universitario si presenta sovente come una vera e propria riserva di caccia a disposizione di alcuni potentati, strategicamente coordinati con colleghi di altri atenei, per favorire reciprocamente gli interessi di familiari, parenti o amici. Con buona pace del merito, va riconosciuto che esiste una rete di concorsi pilotati e truccati con logiche clientelari, un sistema patologico di selezione teso ad assegnare cattedre, incarichi o posti in organico al di fuori delle regolari procedure concorsuali pubbliche. Un sistema vergognoso e riprovevole che differisce dal modus operandi dei mafiosi criminali perché quest’ultimi minacciano o uccidono con le armi mentre i “baroni” lo fanno con l’oculato maneggio della discrezionalità tecnica, utilizzata collegialmente per renderla non facilmente sindacabile neppure a livello giurisdizionale. Ricordo un contenzioso attivato al TAR di Trieste da una giovane laureata in medicina con 110 e lode, contro la sua esclusione dalla prova per una specializzazione medica nell’università di Udine. Ammessa con riserva al concorso con mio decreto presidenziale, risultò prima alla prova scritta, ma fu bocciata alla prova orale. Il collegio giudicante, in sede di legittimità e quindi privo di giurisdizione sul merito, fu costretto a respingere il ricorso perché la valutazione tecnica operata dalla commissione era priva di quei vizi che avrebbero invalidato la decisione: errore di fatto, illogicità manifesta, motivazione contraddittoria e incongrua. Ancora una volta lo strumentale utilizzo della discrezionalità tecnica aveva consentito di salvaguardare il risultato deciso a tavolino prima della valutazione dei partecipanti. Concludo dicendo che nel fenomeno del “baronaggio” s’intravede l’esistenza di un’associazione a delinquere tra quei professori, i cui misfatti, pur sotto gli occhi di tutti, non vengono di regola denunciati per paura di ritorsioni: gran parte degli esclusi o perdenti si adattano anche in considerazione dei costi processuali e dei tempi lunghi per avere una risposta giustiziale. Tutto ciò in contrasto con i principi costituzionali della legalità, della trasparenza e della imparzialità e con l’art. 34 comma 2 della Carta che sancisce il diritto dei “capaci e meritevoli” e con le norme del neminem laedere.