Macchie solari: segni del nostro scudo naturale

La formazione di macchie solari è un meccanismo di difesa del nostro corpo ma l’applicazione di solari Spf 50 potrebbe schiarirle

L’uomo misura di tutte le cose. Quante volte abbiamo sentito questa frase a scuola? Per chi non lo ricordasse a enunciarla fu Platone in uno dei suoi famosi dialoghi, attribuendola al sofista Protagora. Per quest’ultimo – ci narra il grande filosofo greco – tutto il mondo esisterebbe solo in funzione dell’uomo. Attraverso i suoi sensi l’uomo impara a conoscere la realtà che lo circonda e che quindi cambia a seconda dell’individuo che la esamina, ma, in senso lato, attraverso di essi arriva anche mutarla piegandola alle proprie esigenze. Un concetto che fu poi ripreso tanto dai fautori del relativismo (non esiste una sola realtà ma tante visioni della stessa quanti sono gli esseri umani) quanto dagli umanisti che appunto sottolineavano la posizione privilegiata dell’uomo nel mondo. Un punto di vista analogo a quello contemporaneo che però non tiene conto di quanto in realtà l’essere umano, in natura, non sia che un attore in mezzo ad altri, continuamente minacciato dall’ambiente esterno. La storia dell’evoluzione, in fondo, può anche essere letta come una lotta di sopravvivenza: il fuoco domato per difendersi dalle fiere e proteggersi dal buio, le palafitte costruite per stare lontani dai nemici o dall’impetuosità dei corsi d’acqua, le pellicce e successivamente i vestiti cuciti per difendersi dal freddo. Anche a livello fisico, nel corso di centinaia di migliaia di anni, il corpo umano è progressivamente mutato sviluppando propri sistemi di difesa sempre più efficaci: l’apparato esocrino per mantenere una temperatura corporea soddisfacente in presenza di eccessivo calore, i capelli e i peli per difendersi dall’escursione termica, una pelle capace di reagire alle radiazioni ultraviolette (UVB e UVA) emesse dal sole grazie a una serie di processi fotochimici all’interno delle cellule che la compongono. Questo tipo di interazione tra raggi UV e cute, in particolare, viene solitamente esaminato per gli effetti nocivi che ha sulla nostra salute sottovalutando, per esigenze di semplificazione, che essa è il risultato di mutamenti evolutivi avvenuti nel tempo a livello dello strato corneo. La nostra naturale protezione dell’epidermide contiene molecole in grado di assorbire le radiazioni UV, agendo da filtri naturali oppure innescando importanti funzioni biologiche come la catena di eventi che a partire dalla fotolisi del deidrocolesterolo portano alla sintesi della vitamina D. Si tratta di un processo divenuto molto efficiente tant’è che, alle nostre latitudini, sono sufficienti pochi minuti al giorno di esposizione al sole per garantire circa l’80% del fabbisogno totale del nostro organismo. Alcuni problemi, però, sono ancora riscontrabili a livello delle macromolecole presenti nelle cellule (DNA e proteine) che essendo particolarmente sensibili alle radiazioni UV possono manifestare danni a livello molecolare. Pensate che è stato stimato che ogni giorno, ciascuna cellula esposta al sole accumuli circa 105 lesioni nel proprio DNA. E non è neanche necessaria un’esposizione eccessiva per provocare un danno significativo al DNA: è sufficiente infatti la dose minima eritematosa per indurre riduzione dell’ATP cellulare, produzione di citochine infiammatorie, immunosoppressione (Byrne 2014). Le nostre cellule cutanee si trovano dunque continuamente impegnate a riparare i danni al DNA indotti dal sole contando, fortunatamente, su un apparato molecolare altamente specializzato che coinvolge circa 30 enzimi diversi. Sebbene altamente efficienti, i meccanismi di riparo non riescono però a compensare pienamente tutti gli insulti molecolari causati dalla sovraesposizione solare e così una certa percentuale di lesioni al DNA si fissa sotto forma di mutazioni somatiche. Pian piano nel corso degli anni, le mutazioni si accumulano e a lungo andare portano a modifiche sostanziali della fisiologia cellulare provocandone l’invecchiamento precoce. Si stima che l’80% dei tratti somatici dell’invecchiamento cutaneo sia dovuto alla sola esposizione solare (Imokawa 2019). Si sa che una delle risposte fotoprotettive verso i raggi UV è costituita dalla produzione di melanina da parte dei melanociti (B. A. Gilchrest & M S Eller, 1999) ma ciò può rappresentare, in molti soggetti, sia di sesso maschile che femminile la causa principale della formazione delle macchie solari, fra i principali indicatori del fotoinvecchiamento cutaneo. L’incidenza di questi inestetismi è maggiore soprattutto negli ultra-cinquantenni la cui cute manifesta già un ricambio cellulare più lento. Le lentigo solari sono manifestazioni cutanee benigne che appaiono a livello del viso e nelle zone maggiormente colpite dalle radiazioni luminose, come chiazze di forma irregolare, non ben definita, e di grandezza variabile finanche molto estese. Possono manifestarsi sia nelle persone bionde con carnagione chiara sia nelle persone di pelle scura e con capelli neri. Non sono associate ad alcun sintomo specifico, quali prurito o dolore e la loro caratteristica principale è che il colore è molto variabile, dal nocciola al marrone e non schiarisce a seguito della riduzione dell’esposizione al sole. Istologicamente, interessano lo strato superficiale dell’epidermide dove si assiste a un’alterazione della melanogenesi, con l’aumento dell’attività di produzione e accumulo di melanina. Nella lentigo solari si assiste dunque sia a una stimolazione sia della proliferazione che della melanizzazione nei melanociti lesionali e ciò fa ipotizzare che i cheratinociti leggermente proliferanti inneschino l’attivazione dei melanociti vicini secernendo citochine che li stimolano (Imokawa 2019). In quanto manifestazioni benigne, non è necessario trattarle, tuttavia le macchie solari rappresentano un importante problema estetico che può evolvere ulteriormente con formazione di cheratosi seborroiche. Oggi, le lentigo solari possono essere trattate con diverse modalità: crioterapia, laser, peeling chimico e l’utilizzo locale di sostanze come l’acido retinoico, che favoriscono il ricambio cellulare delle cellule cutanee. La loro prevenzione, invece, consiste essenzialmente nel ridurre l’esposizione alla luce solare mentre l’utilizzo di protezioni solari svolge un ruolo fondamentale sia in ambito preventivo sia per mantenere a lungo il risultato del trattamento. Per calcolare quanto incide la fotoprotezione, uno studio teorico ha messo a confronto il tempo massimo di esposizione ai raggi UV/giorno, calcolato al momento del più forte flusso UVB (tra le 10 e le 14), senza e con un fotoprotettore. Nel primo caso per mantenere la pelle giovanile fino a 60 anni di età il tempo ammonterebbe a soli 3,27 minuti, mentre si potrebbe arrivare a163 min/giorno per coloro che utilizzano le protezioni solari con fattore di protezione (SPF 50). Per le persone che vogliono ritardare l’inizio delle lentigo solari fino a 80 anni di età, invece, il tempo massimo di esposizione è stato calcolato in 2,54 min, esteso a 127 min/giorno con l’uso di protezioni solari con SPF50. In sintesi, i risultati dello studio suggeriscono quindi che l’uso di filtri solari con un SPF elevato può contrastare il fotoinvecchiamento anche a seguito dell’esposizione al sole di 2 o 3 ore all’aperto, anche nelle ore più assolate delle giornate estive (Ichihashi and Ando 2014). Infine, uno studio più recente condotto su volontari, ha confermato come l’applicazione giornaliera della protezione solare abbia un effetto “schiarente” sulle lentigo solari trattate, rispetto a quelle non trattate (Josse, Le Digabel, and Questel 2018).