Lo zoo di vetro: una storia da capire meglio

La famosa opera teatrale di Tennessee Williams è fortemente autobiografica e probabilmente la sua protagonista era una asperger

della Dott.ssa Gabriella La Rovere

TOM: “Laura è molto diversa dalle altre ragazze
AMANDA: “Una diversità che le torna a onore, direi!
TOM: “Non del tutto, agli occhi degli altri – estranei – è straordinariamente timida e vive in un mondo suo e tutto questo la fa sembrare bizzarra alla gente di fuori
AMANDA: “Bizzarra! Che bizzarra!
TOM: “Questa è la realtà. Lei è così
AMANDA: “E in che consisterebbe questa bizzarria, se è lecito chiedere?
TOM: “Vive in un mondo per lei, un mondo di…fragili figurine di vetro, mamma…”.
Il dialogo che avete appena letto è presente al termine della prima parte de “Lo zoo di vetrodi Tennessee Williams, opera portata in scena il 26 dicembre 1944. Un anno prima, precisamente il 14 gennaio 1943, la sorella Rose, più volte ricoverata in clinica psichiatrica per schizofrenia e più volte sottoposta a shock insulinico, subì l’intervento di lobotomia prefrontale bilaterale. La tragica storia di Rose fu il tarlo che scavò nella psiche del grande drammaturgo, che non si perdonò di non essere stato accanto alla sorella, di non essersi opposto a un atto così devastante. In quel periodo era all’Università dell’Iowa per seguire un seminario di drammaturgia. I genitori si trovarono perciò a prendere una decisione in merito a Rose, che aveva frequenti crolli psicotici nei quali era convinta di essere avvelenata o uccisa. Gli psichiatri interpellati insinuarono nella mente del padre Cornelius il sospetto che la figlia potesse aggredirlo durante la notte e lo convinsero che era l’unica cosa da fare, altrimenti avrebbe passato il resto della vita in uno stato di rabbia maniacale, all’interno di celle imbottite. Un noto chirurgo eseguì gratuitamente la lobotomia su 30 pazienti, tra cui Rose, altra leva non indifferente visto la tirchieria che caratterizzava Cornelius. Dopo l’intervento, non andò più a visitare la figlia, per lui era come se fosse scomparsa dalla faccia della Terra. “Lo zoo di vetro”, così come “Improvvisamente l’estate scorsa” funge da catarsi per Williams, il cui vero nome era Thomas, anzi Tom, come era chiamato in famiglia. E non può che essere lui, il fratello di Laura Wingfield, che più avanti nel dramma verrà chiamata da un aspirante pretendente con il soprannome Blue Rose (Rosa Blu o, meglio, Rosa Triste). Anche il cognome del protagonista inizia con la stessa lettera W. Nel 1943, anno della lobotomia di Rose, Leo Kanner aveva introdotto l’autismo come disturbo separato dalla schizofrenia, descrivendo il caso di undici bambini, due dei quali avevano già avuto una diagnosi di demenza precoce. Il quadro clinico riferito da Kanner non poteva essere attribuito a una disgregazione della personalità psichica in quanto mancavano le allucinazioni e l’insorgenza dei disturbi comportamentali era precoce, già nell’infanzia. In quegli anni i bambini, dopo inutili tentativi terapeutici, venivano lobotomizzati, specialmente quelli che erano descritti come “viventi in un mondo di fantasia”, allocuzione simil-poetica per una diagnosi che poi non lasciava scampo. Alla luce di quanto è emerso negli ultimi anni, è molto probabile che Rose fosse autistica e l’intervento di lobotomia una tragedia che poteva essere evitata. Dal libro scritto dalla zia Edwina Williams – “Remember me to Tom” – Rose, come tutte le ragazze Asperger, aveva manifestato una certa stranezza di comportamento nell’adolescenza diventando “scontrosa e ritirata, annoiata a morte e priva di interessi funzionali”. Trascorreva ore mettendo a posto i suoi vestiti e giocando con Jiggs, il Boston terrier della famiglia. Faceva collezione delle etichette dei barattoli di zuppa di pomodoro Campbell, di cui era particolarmente ghiotta tanto da rappresentare l’unica cosa che mangiava. Aveva dei comportamenti ritualistici quale quella di mettere una brocca di acqua ghiacciata fuori dalla porta prima di andare a letto, delle stereotipie verbali con la frase “tragico, solo tragico” che una volta aveva sentito dalla madre e che ripeteva ossessivamente. Stava chiusa in camera e non sempre rispondeva quando veniva chiamata. L’incapacità a comprendere l’ironia, la portava a reagire esageratamente confermando una volta di più la sua stranezza e allontanandola dai coetanei. Un ragazzo, un certo Clark Mills da cui Williams prese spunto per il Jim O’Connor ne “Lo zoo di vetro”, descrisse il suo aspetto e comportamento: “era una ragazza molto bella, ma vestita nel più orribile abito in chiffon lungo fino alla caviglia, che sembrava datato del 1922. Veramente orribile, la ricordo in piedi nell’ombra della sala da pranzo, incapace o restia a entrare e, come ricordo, non parlò del tutto”. Questa scena venne poi trasferita nell’opera teatrale, dove la paralisi sociale ed emotiva di Rose venne espressa in un preciso segno fisico: una delle gambe di Laura è più corta dell’altra ed è sostenuta con un tutore. Tale caratteristica esteriore aumenta le difficoltà sociali, comunicative.

La copertina del DVD dello Zoo di Vetro che raffigura il manifesto originale dell’epoca. Il film ebbe anche un remake nel 1987 con Paul Newman.

Laura è afflitta da una timidezza oppressiva che le impedisce di entrare in relazione con gli altri e che la mette in uno stato di grande ansia. Jim l’aiuta a superare le difficoltà, ad avere fiducia nelle proprie capacità. Ed è qui che entra in scena la collezione di animali in vetro che rappresenta la passione di Laura, l’attività in grado di darle serenità. Tra questi ce ne è uno, al quale lei è più affezionata e che, apparentemente non ha alcun tratto in comune con gli altri: è un unicorno, ossia un animale fantastico, non reale, straordinariamente diverso. Si trova insieme ai cavalli, con i quali c’è una somiglianza che induce una tolleranza. Più avanti, a causa di un movimento malaccorto, la statuina cade a terra perdendo il corno. Laura penserà che abbia avuto un’operazione. Gli han levato il corno così si sente meno…eccentrico. Si sentirà più in famiglia adesso con gli altri cavallini, quelli che non hanno il corno. Poco dopo Laura prende in mano la statuetta mutilata e, in un gesto straziante, insiste affinché Jim la prenda come un souvenir. “Lo zoo di vetro” raffigura la sua eroina neurodivergente come una fragile vittima di ciò che Lennard J. Davis ha definito “la tirannia della normalità”. Williams, che non era stato presente per prevenire la deturpazione letterale e figurativa di sua sorella, chiude il dramma con immagini che amaramente accusano il fratello di Laura, il suo omonimo Tom, che abbandona la famiglia per una vita di viaggi e avventure. Mentre nello sfondo Amanda cerca di confortare Laura, che è ”rannicchiata sul divano”, Tom spiega al pubblico i suoi tentativi inutili di fuggire dalla memoria di sua sorella e dalla colpa devastante per averla abbandonata. Egli dice le ultime battute del dramma come Laura si sporge per soffiare sulle candele che, dall’inizio della scena, sono l’unica fonte di illuminazione dell’appartamento: “Oh, Laura, Laura, ho fatto di tutto per staccarmi da te, ma sono più fedele di quanto pensassi di essere! Prendo una sigaretta, attraverso la strada, entro di corsa in un cinema o in un bar, compro da bere, parlo all’estraneo più vicino – tutto ciò che può spegnere le tue candeline…per oggi il mondo è illuminato da un fulmine! Soffia sulle tue candeline, Laura – e così addio…”. La luce che dichiara di avere spento è naturalmente quella della memoria colpevole su Laura. Quale metafora, le candeline suggeriscono l’infedeltà di Tom che, invece di pagare la bolletta elettrica, decide di usare quei soldi per iscriversi all’Unione dei Marinai Mercantili e così allontanarsi dalla famiglia. L’oscurità che inghiotte la scena quando Laura soffia sulle candeline