L’effetto del chiaroscuro quando segna la pelle

I raggi solari possono alterare il DNA cutaneo ma i primi segni appaiono sulla pelle con un effetto transitorio o con macchie permanenti

Da anni Roma ospita una manifestazione di notevole successo, Dermart, che mette insieme la cultura dermatologica e quella artistica, utilizzando quadri e illustrazioni in cui vengono ritratte patologie cutanee. Nelle relazioni e nel dibattito molte volte si è parlato del chiaroscuro che, come è noto, è uno straordinario effetto artistico che dà risalto alle immagini, tramite la definizione di luce e ombre sulle superfici dipinte, sovrapponendo, tonalità chiare e scure. In pittura il chiaroscuro è legato all’uso dei colori e la Storia dell’arte c’insegna che tanti maestri con il virtuoso utilizzo della luce e del chiaroscuro hanno creato, all’interno dei loro capolavori, un’idea dei volumi, dei materiali, dello spazio. Anche nella dermatologia ci sono stati grandi maestri che, con la loro ricerca hanno chiarito gli effetti che la luce induce a livello superficiale e profondo nella pelle, contribuendo così a una completa conoscenza relativa al colorito dell’incarnato, e come esso dipenda – ugualmente che in una delle tecniche del chiaroscuro – dal tipo e dalla distribuzione dei pigmenti melaninici. Nella tavolozza dei colori base della cute e dei capelli, la melanina è responsabile per il nero, il bruno, il rosso, il giallo e, ove è totalmente assente, anche del bianco. Altre sostanze che contribuiscono sono l’emoglobina, ridotta e ossidata, e per il giallo, i carotenoidi prodotti dalle piante che si accumulano nel sottocutaneo e nell’epidermide. A differenza che nei quadri e nelle grafiche, dove, una volta terminati i colori delle opere possono solo sbiadire con l’invecchiamento, nella pelle il colorito costituzionale, irreversibile perché geneticamente determinato, può essere modificato in maniera successiva e facoltativa, in base alla capacità genetica della cute a pigmentarsi come conseguenza dell’esposizione ai raggi solari. Sappiamo bene che è proprio quest’ultima proprietà che rappresenta la base della classificazione dei sei fototipi cutanei proposta anni addietro da Fitzpatrick. Ma è altrettanto noto che il colorito cutaneo può essere modificato per un incremento della melanina in maniera generalizzata o localizzata, anche per alterazioni ormonali fisiologiche, come la gravidanza, o patologiche come il morbo di Addison. Anche le ipomelanosi, con riduzione o assenza di pigmento cutaneo, possono essere dovute a disturbi genetici o ambientali, e i quadri clinici più comuni che si manifestano sono, fra gli altri, la Vitiligine e la Pitiriasi alba. Rispetto alla luce solare e la sua influenza sul colorito e sulla salute della cute, la fotobiologia ha messo in evidenza particolari risposte all’assorbimento delle radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti comprese nello spettro dell’ultravioletto, del visibile e dell’infrarosso, da parte dei diversi cromofori tissutali (cheratina, emoglobina, porfirine, acidi nucleici, melanina, lipoproteine, aminoacidi, ammine aromatiche, sistema ossido-riduttivo mitocondriale, riboflavina, acido urocanico). A seconda del tempo intercorso fra l’esposizione ai raggi solari e l’insorgenza degli effetti fotobiologici questi ultimi si distinguono in acuti precoci (azione calorica; pigmentazione immediata; fenomeni ossidativi; alterazioni del genoma) o acuti tardivi (eritema attinico; pigmentazione ritardata, immunosoppressione; iperplasia epidermica). Nell’evoluzione dei quadri anatomo-patologici dell’aging cutaneo molta più importanza assumono le reazioni fotobiologiche croniche, dovute al danno cumulativo provocato dall’assorbimento continuo e ripetuto di dosi pur modeste, al di sotto della soglia eritematogena, di UVB e UVA. Si verificano, così, alterazioni genomiche, mitocondriali, danni ai vari componenti della matrice connettivale dermica (collageni, fibre elastiche, sostanza fondamentale, proteine citoadesive). Molti studi, in più, evidenziano il nesso tra il danno attinico cronico e le pregresse fotoesposizioni, in particolare nello sviluppo di carcinomi a cellule basocellulari e squamose e nelle forme che rientrano nel capitolo delle Cheratosi attiniche. Quest’ultime rappresentano delle lesioni precancerose molto comune in ambito dermatologico, la cui incidenza è tipicamente età-correlata, risultando molto frequente nella popolazione anziana. Da un punto di vista fisiopatologico, è ormai assodato che la cheratosi attinica associata all’esposizione solare è legata al danno cronico, diretto e indiretto, causato al DNA dalle radiazioni solari. E qui, curiosamente, torniamo al nostro iniziale riferimento al chiaro-scuro in dermatologia. Oggi infatti sappiamo per certo che la componente UVB è in grado di alterare direttamente la struttura del DNA, inducendo la formazione di dimeri di pirimidina ciclobutano (CPD) che vengono definiti chiari. Benché questi fotoprodotti del DNA si formino in brevissimo tempo in seguito all’esposizione ai raggi UVB, la loro formazione persiste per almeno tre ore dopo l’esposizione solare, dando origine a formazioni definite scure, i cosiddetti “Dark CPD”, la vera causa dei tumori della pelle. I ricercatori dell’Erasmus University Medical Center di Rotterdam hanno chiarito come i due principali tipi di lesioni del DNA indotte dai raggi UV – i dimeri di pirimidina ciclobutano (CPD) e i fotoprodotti 6-4 (6-4PP) – contribuiscono ai processi della morte cellulare e della formazione del cancro. Durante l’evoluzione, hanno spiegano Bert van der Horst e i suoi colleghi in un articolo pubblicato sulla rivista “Current Biology (Volume 15, No. 2, pp. 105–115; 26 gennaio 2005)”, i mammiferi hanno perduto la capacità di produrre le fotoliasi, una classe di enzimi in grado di riparare le lesioni. Per tale motivo, anche gli uomini, devono ricorrere per resistere agli effetti deleteri dei raggi UV a un processo genetico meno diretto ed elaborato, la riparazione per escissione dei nucleotidi. Per questo, secondo questi autori, le lesioni CPD costituirebbero il maggior intermediario nel danno cellulare che conduce a tumori della pelle. Inoltre, lo studio suggerisce che le fotoliasi potrebbero essere usate con successo per combattere questo tipo di tumori. Una scoperta decisamente importante perché aiuta a comprendere quanto sia importante proteggere la pelle non solo durante l’esposizione solare, ma anche in seguito, quando l’esposizione diretta è terminata.