La bulimia di notizie legate al Covid-19 è l’esempio di come l’informazione possa a volte generare dubbi anziché risolverli
Di fronte all’ignoto, la risposta spesso è la paura e, di pari passo, il bisogno di rifugiarsi in se stessi ancorandosi alle proprie certezze e verità. Non stupisce allora che qualcosa di completamente inatteso come il Covid-19 abbia finito, ben oltre la sua carica virale, col suscitare terrore in larghe parti della popolazione. Complice la gestione, a volte anche approssimativa della pandemia a livello politico, ma anche la narrazione più che drammatica che ne è stata fatta a livello mediatico. Lo testimoniano i numeri scanditi giornalmente come prima notizia dei Tg e nei paginoni dei quotidiani da marzo 2020 a oggi. A parlare nei talk show televisivi di qualcosa di cui ancor oggi non si sa tutto, sono stati tanti rappresentanti della comunità scientifica, medici, virologi, personale amministrativo delle Asl o delle aziende ospedaliere, ma in un unico gigantesco calderone, anche portavoce dei partiti, commentatori di professione, giornalisti con limitate competenze scientifiche, che hanno reso ancora più complessa una situazione già molto difficile. Le notizie spesso discordanti tra loro, le frasi a effetto, i numeri molte volte citati a caso o interpretati in modo non corretto da chi è chiamato a fare informazione, hanno avuto come effetto quello di generare ansia e diffidenza nel pubblico. Un’incertezza che ha finito col travalicare l’argomento contingente e si è riversato sulla scienza tout court alimentando il sospetto del complottismo che, si sa, è un modo di pensare che supera i confini nazionali e i colori politici, e che può accomunare uomini di cultura a chi invece non ha studiato. Affermare che è in atto un complotto globale e che il Covid non esiste, non ha nulla a che fare con la teoria popperiana della falsificazione della scienza, per cui le ipotesi per essere confermate vanno sempre incontro a un processo di confutazione, volto a identificarne le eventuali pecche. Il presupporre trame e accordi segreti ha alla base una negazione di verità acquisite e quasi mai dubbi costruttivi. Nel complottismo il sospetto assurge a dogma senza solide fondamenta, alimentato da una reinterpretazione ad hoc dei dati a disposizione. Nella pandemia i dati inconfutabili corrispondono alle esperienze sul campo di una platea vastissima di medici, alle storie di migliaia di persone che non ce l’hanno fatta o non hanno ancora superato gli effetti del virus. Eppure a pensare che il Covid è un’invenzione, sono oggi il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone). A testimoniarlo c’è il 55esimo rapporto del Censis da cui si scopre anche che il 10,9% degli italiani ritiene che il vaccino sia inutile e inefficace, mentre per ben il 31,4% rappresenta un farmaco sperimentale e che le persone che si sono vaccinate hanno accettano di fare da cavie. Ancora, il 12,7% pensa che la scienza produce più danni che benefici. Abbiamo detto in apertura che il dubbio genera paura e che quest’ultima può sfociare in una ricerca di semplicità rassicurante, anche a discapito della realtà. Lo si riscontra anche nel rifiuto della tecnologia informatica, nonostante durante il lockdown ci abbia permesso di continuare a lavorare e a rimanere in contatto con amici e parenti, oppure nel timore che la rete 5G possa rappresentare un sofisticato strumento di controllo individuale (tesi che accomuna il 19,9% degli italiani). Ma come si spiega il dato secondo cui il 5,8% della popolazione italiana crede ancora che la Terra sia piatta? E ancora: com’è possibile che il 10% sia convinto che l’uomo non è mai sbarcato sulla Luna mentre il 39,9% crede alla teoria cospirazionista del «gran rimpiazzamento», ovvero che sia in atto una gigantesca operazione, perpetrata da oscure élites globaliste, per sostituire le nostre identità e cultura nazionali con quelle degli immigrati stranieri? Quando l’irrazionale infiltra il tessuto sociale, mina le conoscenze generalmente considerate come assodate, ma soprattutto rende palesi le carenze presenti nei processi educativi e dell’informazione. Far basare le convinzioni di un ampio numero di persone sulla lettura nel web di fake news, messaggi e hashtag virali e spesso fasulli, oppure su video di denuncia manipolati, è il risultato auspicato da chi fa della disinformazione la propria strategia comunicativa. Del resto è più facile conquistare l’attenzione con tesi esagerate e titoli a effetto più che con approfondimenti o complesse spiegazioni scientifiche. L’overload d’informazioni, non solo di carattere sanitario, che ha sommerso la popolazione, ha creato stress, confusione e tanti timori, che aumentano la fragilità delle classi d’età più avanzate e delle persone più ansiose. L’eccesso d’informazione si è trasformato in un’infodemia che non consente un’adeguata consapevolezza della realtà, ma anzi facilita un suo travisamento e una percezione falsata. La combinazione dello stress indotto da messaggi preoccupanti, della dis-percezione della verità e di un treno di fake news, realizza un effetto distorsivo, in quanto, questi fenomeni sommati insieme non consentono al cittadino di acquisire un adeguato e sufficiente livello di conoscenza corretto. Rappresentano inoltre una palese violazione delle garanzie costituzionali sull’informazione, che può a sua volta incidere anche sul modo di operare degli organi istituzionali che, inevitabilmente condizionati dalla necessità di consenso, indirizzano le loro scelte più verso le aspettative dei propri possibili elettori di quanto effettivamente sia necessario. E proprio l’accenno alla ricerca del consenso politico che ci permette di fare una ulteriore riflessione. Sappiamo che il controllo dell’informazione è uno dei connotati fondamentali dei regimi autoritari e totalitari, mentre l’assenza di censura è la prerogativa essenziale di un ordinamento democratico. Ora che viviamo in un’era completamente dominata dal digitale, in cui le notizie sono diffuse attraverso strumenti che non permettono alcuna preselezione, l’interposizione di un filtro o il loro trattamento, con la scelta di non controllare e lasciare libera l’informazione non si rischia di protrarre all’infinito una condizione di disinformazione, allarme, angoscia e diffidenza? Si possono, però, barattare i diritti e le libertà individuali garantiti dalla democrazia in nome di una verità presentata come assoluta, ma che può essere utile a chi in quel momento detiene il potere?
È proprio il sospetto che ci siano Istituzioni, individui o potentati economici che vogliono controllare a proprio vantaggio l’informazione, che dà origine a molte tesi complottistiche. Peraltro come si può pretendere di poter analizzare l’indiscriminata mole d’informazioni che giornalmente vengono diffuse, capaci di sostenere tutto e il contrario di tutto, senza suscitare il dubbio che in questo modo si vogliano legittimare misure e scelte sempre meno democratiche? L’accusa che si voglia stabilire un regime dittatoriale sull’informazione è certamente un’iperbole creativa utile ad alimentare un dibattito pubblico che si fonda sulla contrapposizione fra diversi soggetti (pro-vax contro no-vax, virologi contro medici di famiglia, maggioranza di governo – opposizione) ma non contribuisce affatto al dialogo costruttivo tra le parti. La sensazione è che anche questa volta, nel corso di un’emergenza, gli attori chiamati in causa stiano perdendo un’occasione importate per collaborare a favore degli italiani tutti. L’ignoto spaventa ma l’uso politico della scienza ancor di più. L’alimentare e il cavalcare la paura vanno sempre combattute, ricorrendo alle armi della conoscenza, non lasciando spazio alla pancia e alle post-verità. Perché, come recita il titolo di un’opera di Goya: “Il sonno della ragione genera mostri”.