Gabriella La Rovere
Nella sua carriera diverse le posizioni assunte sul sistema di gestione dei malati psichiatrici e anche qualche riflessione originale per l’epoca
La controversa figura di John Haslam è stata indebitamente trascurata dagli storici della medicina. Nacque a Londra nel 1764, maturò le sue prime esperienze cliniche al St. Bartholomew Hospital, prima come studente e poi come medico. Fu membro della Royal Medical Society di Edimburgo e nel 1786 ne divenne il presidente più giovane. Nel 1795 svolse per oltre 20 anni anche il ruolo di farmacista presso il Bethlem Hospital che era in una fase di grave crisi. L’edificio sontuoso eretto a Moorfield non era altro che “un’elegante carcassa dove i pavimenti si aprivano, le pareti si spaccavano e la città in espansione aveva ingoiato i campi che lo circondavano”, tant’è che nel 1815 l’ospedale fu spostato in una nuova struttura a St. George Fields. All’epoca, nel nosocomio e più in generale in Inghilterra, la gestione dei malati di mente era sotto il controllo dalla dinastia dei Monro (1728-1882), cinque generazioni di medici, quattro dei quali esercitarono al Bethlem Hospital. Durante il periodo di Haslam, ci lavorava Thomas Monro (1759-1833), famoso come medico della pazzia, anche se in realtà non produsse alcun lavoro realmente scientifico sulla follia. Rigido nella gestione dell’ospedale e dei ricoverati, un giorno venne convocato dalla Commissione cittadina insieme al dott. Haslam. Senza alcuna esitazione, Thomas Monro affermò che le catene e altri sistemi di contenzione venivano regolarmente usati a Bethlem, nonostante a Parigi, considerata la patria del pensiero e della sperimentazione psichiatrica, fossero stati abbandonati da più di 20 anni. Al suo fianco anche Haslam sostenne che le restrizioni usate erano per il bene del paziente, ma il caso di John Tilly Matthews, fece precipitare la situazione e portò qualche tempo dopo all’allontanamento di Haslam, che così divenne il capro espiatorio della cattiva gestione dei Monro. La cronaca racconta che John Tilly Matthews venne ammesso a Bethlem il 28 gennaio 1797. Era un uomo di una certa cultura, commerciante di tè, probabilmente affetto da ciò che oggi verrebbe definito “schizofrenia paranoide”. I suoi parenti cercarono più volte di farlo dimettere perché lo ritenevano sano di mente, seppur con una tendenza patologica a mentire. Nel gennaio 1798 venne invece trasferito al reparto “incurabili” dell’ospedale. Ebbe così inizio una battaglia legale nella quale due autorevole medici, ingaggiati dai parenti, diagnosticarono la sua sanità mentale, richiedendone con forza le dimissioni e il ritorno a casa. Nel suo libro “Illustrations of Madness, with a Description of the Tortures experienced by Bomb-bursting, Lobster-cracking, and Lengthening the Brain” pubblicato nel 1810 John Haslam parlò del caso Matthews e sulla questione si schierò dalla parte degli ufficiali medici del Bethlem Hospital, sostenendo con loro che il signor Matthews era sempre stato malato, fin dall’epoca della sua ammissione. Nel 1815 i parenti ritornarono alla carica e nel corso di un’inchiesta, Haslam venne ascoltato dal Comitato dell’ospedale, e alla fine il povero Matthews venne affidato alle cure di un’altra clinica privata, la cui retta fu convenuto che fosse pagata a metà dall’amministrazione del Bethlem e metà dai parenti. Sfortunatamente Matthews morì poco dopo e il licenziamento di Haslam, al posto del più potente Thomas Monro, divenne inevitabile, avendo trovato ulteriore giustificazione in una presunta affermazione ascoltata in una caffetteria dove alcuni avventori stavano discutendo del caso. Un testimone riferì di aver sentito dire da Haslam che Matthews era sano di mente e che non c’era alcuna ragione di tenerlo rinchiuso. La sua cacciata dal Bethlem gli procurò gravi implicazioni finanziarie e fu costretto a vendere la sua biblioteca (1167 libri di cui 79 di medicina). Il tracollo finanziario fu però la spinta a scrivere e pubblicare ben quattro volumi scientifici sulla malattia mentale, nel periodo 1816-1819. Il suo nome divenne famoso in Europa e America anche grazie al suo modo di scrivere facilmente comprensibile: il suo interesse per l’etimologia, lo portò a considerare il linguaggio in modo più attento rispetto allo scrittore medio di medicina dell’epoca. Uno dei suoi scritti era intitolato “Considerazioni sulla gestione morale delle persone matte” e conteneva delle posizioni differenti e innovative rispetto a quanto detto e scritto nel passato. Si affermava, infatti, che nel trattamento una forma di moderazione fosse necessaria durante la fase attiva, sia della malattia maniacale che di quella depressiva. Solo nello stato passivo di entrambe le forme la custodia poteva essere esercitata in modo più efficace. Subito dopo passava a considerare l’internamento, la coercizione, i cosiddetti custodi, la distribuzione dei matti in classi più o meno omogenee, l’occupazione, lo svago. Egli continuava a sottolineare la necessità di una forma di contenimento per prevenire che alcuni pazienti facessero del male a sé stessi e agli altri, ma il capitolo riguardante i custodi e la loro formazione era decisamente innovativo. Veniva inoltre lamentata la loro cattiva condizione economica e come fosse necessario garantire loro migliori condizioni di lavoro e un regime pensionistico. Il suo successivo libro, “La giurisprudenza medica correlata alla follia”, fu il primo di psichiatria forense ad essere pubblicato in Inghilterra. Ma fu nel 1818, dopo un lasso di tempo sufficiente ad eliminare l’influenza dell’emotività su ciò che considerava un’ingiustizia, che diede alle stampe la sua autodifesa, “Una lettera ai Governatori del Bethlem Hospital”. Nelle 58 pagine, si descrisse come un serio professionista sacrificato al clamore pubblico e gettato alla deriva senza pensione, “mentre il portiere dell’ospedale si crogiolava al sole di uno stipendio a vita”. Il suo risentimento appare evidente, anche perché dopo il suo licenziamento, richiese la licenza per tornare a esercitare nel privato. I membri della Commissione emisero una nota speciale nella quale si affermava che la pratica era stata velocizzata vista la sua notorietà e produzione medica, ma a Londra, secondo le norme del College of Physicians, gli fu richiesto di dover sostenere una serie di esami per cui fu costretto a iscriversi al Pembroke College di Cambridge. Il 12 aprile 1824, a 60 anni, dopo aver conseguito un’altra laurea venne finalmente riammesso al College of Physicians. Nel frattempo, però, Haslam non aveva interrotto la sua produzione letteraria e, a seguito della formazione di una Commissione tenuta ad indagare sulla salute mentale di Lord Portsmouth, nel 1823 scrisse un significativo e ironico libello “Una lettera al Lord Cancelliere sulla natura e l’interpretazione di insufficienza della mente”. Nel 1843, a 79 anni, Haslam che intanto era diventato un sostenitore del miglioramento della condizione di cura e assistenza dei malati psichiatrici, scrisse i suoi ultimi tre contributi scientifici presentandoli in un’audizione di una commissione governativa. Nel primo saggio egli non negava la necessità di alcune forme di restrizione, ma nel secondo sosteneva che gli imputati di crimini efferati dovessero essere esaminati da uno psichiatra prima del loro processo, mentre nel terzo cercò di analizzare le cause che stavano portando a un aumento dei casi di follia nella società inglese dell’epoca. Nei suoi scritti si evidenzia il rifiuto dell’idea che si trattasse di dissolutezza morale, mentre si sosteneva che a monte di molti episodi ci fosse una prematura dimissione dagli ospedali psichiatrici. Non mancano riferimenti a possibili fattori genetici del disturbo mentale esprimendo l’importanza di approfondire gli studi in questa direzione. Morì nel luglio 1844.