Quando e perché nasce la fotoprotezione?

Già nell’antichità si ricorreva a sostanze naturali che fungevano da barriera verso i raggi solari la cui natura fisica non era però ancora nota.

Le domande dei ragazzi talvolta possono mettere in imbarazzo. Chiamato in una scuola a fare una conferenza su come prevenire e ridurre i danni alla pelle provocati dalla eccessiva esposizione ai raggi solari, mi sono sentito chiedere: “…ma quando ancora non si sapeva che il sole può provocare tumori sulla pelle, perché l’uomo ha iniziato a usare un protettore solare?” Dopo un momento di riflessione la prima cosa che mi è venuta in mente è che il ragazzo aveva in parte ragione: è dai tempi della scuola di Erodoto nell’antica Roma che si ritiene che la luce del sole possieda poteri curativi. Anzi, lo si è considerato a lungo come il più potente “farmaco” che madre natura ci abbia messo a disposizione, capace di agire sulla crescita, sulle nostre emozioni, sui comportamenti. Una consacrazione avvenuta nel 1903 quando Niels Ryben Finsen ottenne il premio Nobel per aver scoperto che la fototerapia era in grado di curare alcune malattie, come il lupus e il rachitismo, quest’ultima provocata dalla mancanza di vit. D, non assorbita proprio in mancanza dell’ esposizione al sole. Quindi, se senza sole la nostra vita sarebbe impossibile, è giusto chiedersi, perché proteggersi? A mio parere ci sono due ordini di motivi che hanno determinato la nascita di strategie protettive nei riguardi dei raggi solari. La prima è di natura estetica: già ai tempi dell’antico Egitto, la pelle abbronzata era sintomo di povertà, poiché solo chi svolgeva lavori umili e manuali viveva sotto il sole mentre i ricchi potevano permettersi di non lavorare. Le patrizie romane avevano l’abitudine di proteggersi per mezzo di parasoli e nel medioevo i pittori rappresentavano le donne con pelli bianchissime. Un segno distintivo, che caratterizzerà tutta la storia dell’arte sino al 1900, e per il cui raggiungimento si arrivava a utilizzare preparati naturali fatti per esempio con latte di mandorle, limone e miele, o anche prodotti chimici tipo ossido di piombo o sottonitrato di bismuto in polvere, spesso nocivi, ma in grado di sbiancare la cute. È solo nel 1865 che in America si afferma indiscutibilmente l’ossido di zinco. All’inizio del XX° secolo, però, la tintarella diviene una moda, favorita dall’avvento della televisione e del cinema a colori, che iniziarono a mostrare donne bellissime e rigorosamente abbronzate. Fino all’eccesso il giudizio s’inverte: l’essere abbronzato diventò lo status che distingueva chi aveva i mezzi per andare in vacanza da chi non poteva permetterselo e rimaneva perciò inesorabilmente pallido. Qui emerge per la prima volta il paradosso medico messo in evidenza dalla domanda postami dallo studente: l’assenza di sole rende il corpo più debole e malato, ma una esposizione eccessiva determina scottature e danni acuti, quali il colpo di calore.
Qui nasce, forse, una nuova cultura volta a proteggere la pelle senza rinunciare all’estetica di un’affascinante abbronzatura, favorendo un corretto modo di prendere il sole, rispettoso delle caratteristiche fenotipiche del proprio incarnato. Quarant’anni fa, infatti, non si sapeva ancora che i danni più gravi fossero quelli cronici, che oggi riteniamo responsabili di alterazioni della pelle clinicamente più importanti, a partire dal photoaging precoce. Non bisogna poi dimenticare che, quando l’età media della vita era molto bassa, ci si preoccupava meno di rughe e macchie cutanee legate al fenomeno dell’invecchiamento. In origine si cominciò a pensare a prodotti specifici per formare una barriera fisica, uno schermo, sulla superficie della pelle che riducesse gli effetti acuti del sole. Storicamente, i primi filtri UV inclusi in creme solari, furono progettati ricorrendo a sostanze che riflettessero o disperdessero i fotoni, o che li assorbissero, impedendo loro di colpire le cellule epidermiche e di penetrare nel derma. Dopo anni di uso, ci si è però convinti che l’uso dei filtri solari topici non potesse essere considerato l’unica strategia per prevenire i danni indotti dalla eccessiva esposizione al sole. In più, il problema pratico della fotoprotezione tradizionale è che spesso la quantità di prodotto che ci si applica sulla pelle è molto inferiore (in genere 50%) di quella che sarebbe necessaria per raggiungere il grado dichiarato. Un filtro solare con protezione SPF 30 per esempio se applicato in modo e quantità non giusti offre in realtà una protezione praticamente minima. Per questa ragione è bene utilizzare prodotti con valori di SPF alti o molto alti (50+ / 100) al fine di assicurare un effetto protezione efficiente. L’approfondimento della ricerca sugli effetti delle diverse componenti dei raggi UV ha portato nell’ultimo decennio allo sviluppo di fotoprotettori, in forma topica o sistemica, che promettono in più anche una azione di scavenging nei confronti dei ROS e sono in grado di attivare la riparazione dei sistemi cellulari danneggiati dalle radiazioni solari, in particolare del DNA. Ma come scegliere la formulazione più indicata? Una fotoprotezione topica efficiente è legata da una parte al ricorso a prodotti con SPF molto alta e ad ampio spettro, e dall’altra che sia cosmeticamente accettabile e facilmente applicabile . Una problematica particolare è l’età pediatrica perché nei bambini si deve tener conto di molte variabili pratiche e soprattutto del fatto che il contatto con l’acqua del mare o delle piscine riduce il potenziale protettivo di molti prodotti solari imponendo frequenti applicazioni di prodotto