Fibrosi Polmonare e sole: quali precauzioni?

di Ariana Urbani

 Per i 9.000 pazienti affetti da una rara e progressiva malattia del polmone, la Fibrosi Polmonare Idiopatica, risulta essenziale non esporsi al sole d’estate

Estate inoltrata. Le precauzioni per il benessere della nostra pelle assediata dal sole si moltiplicano. Sicuramente, però, maggiore attenzione e consapevolezza deve essere posta da chi fa uso di farmaci, specie se irrinunciabili come quelli salvavita, che tuttavia esigono che vengano messe in atto alcune strategie se si vuole “salvare” la pelle, nel senso letterale del termine. È ben risaputo, infatti, che alcuni farmaci possono rendere la pelle estremamente sensibile ai raggi solari, e per questo chi ne fa uso deve sapere come comportarsi, soprattutto nella stagione estiva. Un esempio concreto è quello delle persone affette da una rara e progressiva malattia del polmone, la fibrosi polmonare idiopatica (IPF): questi pazienti – circa 9.000 in Italia, mediamente al di sopra dei 55/60 anni – oggi hanno finalmente un farmaco, il pirfenidone di InterMune, l’unico distribuito nel mondo in grado di rallentare il danno polmonare che li colpisce. Eppure, ciò che salva loro la vita allo stesso tempo espone la loro pelle al rischio di eritemi e scottature anche gravi, con una esposizione al sole anche minima. È dunque necessario essere preparati a gestire questo aumento di fotosensibilità ai fini di non incorrere in un peggioramento delle proprie condizioni di malato raro colpito da IPF.

Per saperne di più e fornire così indicazioni utili a chi è affetto da IPF, la redazione de “La Pelle” ha ascoltato il prof. Venerino Poletti, Direttore U.O. Pneumologia Ospedale G.B. Morgagni – L. Pierantoni di Forlì.

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Professor Poletti, come mai quando si assume la terapia per la fibrosi polmonare idiopatica si genera questo aumento di fotosensibilità? È una cosa frequente?

Il pirfenidone (Esbriet), l’unico farmaco al mondo indicato per la terapia della Fibrosi Polmonare Idiopatica, effettivamente riporta fra i suoi effetti collaterali dichiarati, un aumento del danno alla cute dovuto all’esposizione ai raggi solari, in particolare agli ultravioletti. Questo aumento di fotosensibilità, dovuto al naturale accumulo della molecola nell’epidermide, si manifesta in modo ordinario attraverso iniziali arrossamenti, poi formazione di vescicole fino agli eritemi. Va da sé che l’incidenza di queste controindicazioni – complessivamente, pari all’11% – varia con il variare dell’area geografica, fino a far registrare una quantità doppia di casi nel sud dell’Italia rispetto al nord.

Cosa fare dunque?

Piuttosto che curare questa complicanza sarebbe opportuno prevenire: non esporsi al sole, star coperti più che si può. Quindi usare creme protettrici, in particolare quelle indicate per salvaguardare le parti esposte ai raggi ultravioletti compresi tra i 190 e i 400 nanometri, e che non devono essere assorbiti dalla pelle.

Vi sono segnali che la pelle presenta all’insorgere della malattia?

No, l’IPF rimane una malattia che non si può diagnosticare osservando la pelle. Però questa è una domanda assai interessante sul piano genetico. Assai recentemente, si è scoperta una malattia cutanea molto importante – la discheratosi congenita – associata ad aumento di fotosensibilità e insorgenza di tumori cutanei. Ebbene, per questa patologia la ricerca ha confermato basi genetiche comuni a quelle osservate nella fibrosi polmonare cosiddetta familiare – in particolare, una mutazione di quei geni che codificano per enzimi che controllano la lunghezza della parte finale dei cromosomi, i telomeri. Ma siamo su un terreno speculativo. Al momento, le manifestazioni della fibrosi polmonare rimangono comunque la fatica a respirare, la cosiddetta fame d’aria, la tosse secca, la crescente difficoltà a compiere sforzi fisici anche non prolungati.

Da fuori dunque è una malattia che non si vede in nessun modo?

Non sulla pelle. Piuttosto, dobbiamo guardare le dita del paziente. Chi è affetto da IPF spesso associa fenomeni di “ippocratismo digitale”, ovvero le cosiddette “dita a bacchetta di tamburo” sia per le mani che per i piedi: si tratta di un aumento del tessuto periosseo nella parte distale delle falangette. Certo, non poter passeggiare tranquillamente in riva al mare o ancora doversi mettere creme protettive anche quando si guida l’automobile, non è il massimo. Per i pazienti con IPF è però un disagio minimo in confronto all’evidente opportunità di vita che l’arrivo di questo farmaco porta nella loro esistenza. Fino a poco tempo fa, infatti, per queste persone non c’era nessuna terapia e solo una piccola parte poteva sperare nel trapianto di polmone. “Il farmaco è un agente antifibrotico che si è dimostrato in grado di ridurre il declino della funzionalità polmonare.” – spiega il prof. Carlo Albera, Direttore della Struttura Complessa per le Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università di Torino – “Le evidenze cliniche hanno dimostrato che in pazienti con IPF lieve-moderata, esso può rallentare significativamente la progressione della patologia”. L’età media dei pazienti diagnosticati è ancora oggi piuttosto elevata. In parte perché comunque si tratta di una malattia dell’adulto ma in parte perché è frequente che si arrivi a dare un nome clinico a quella ‘fame d’aria’ solo anni dopo la comparsa dei primi sintomi. La diagnosi, infatti, è un punto fondamentale per trattare il paziente al meglio ma è anche uno dei problemi in parte da risolvere.  “Diagnosticare questa malattia il prima possibile” – continua il prof. Albera – “è fondamentale, in quanto una volta che il danno si è manifestato esso è da considerarsi per lo più irreversibile. Prima abbiamo una diagnosi, più sono efficaci le opzioni di trattamento che possiamo offrire ai pazienti”.

Per fare in modo che la diagnosi della Fibrosi Polmonare Idiopatica sia più semplice e che si crei una classe di medici sempre più esperti, l’azienda produttrice del pirfenidone, InterMune, ha deciso di avviare un progetto apposito. Si chiama PerFect® e ha preso il via ai primi di luglio parallelamente alla commercializzazione del farmaco. Come spiega il prof. Carlo Vancheri Ordinario di Malattie Respiratorie all’Università di Catania: “la diagnosi rimane uno dei principali problemi da affrontare: il paziente ha diritto ad avere una diagnosi corretta nei tempi giusti e a ricevere la migliore terapia. Il progetto PerFect® è stato studiato per dare una risposta positiva al problema. Per una diagnosi corretta serve infatti uno pneumologo capace di riconoscere i sintomi del paziente, un radiologo capace di interpretare i segni sulla TAC – e non sono molti quelli capaci di farlo in questa particolare patologia – ed eventualmente un patologo che sappia leggere il materiale bioptico. Sono in realtà pochi i centri diagnostici sul territorio che hanno tutte queste competenze. PerFect®, che ora parte a livello sperimentale coinvolgendo circa una cinquantina di centri, potrebbe contribuire moltissimo a creare una rete come quella che hanno altre malattie rare. Il progetto crea un network che permette agli ambulatori sprovvisti di una multidisciplinarietà completa di usufruire della competenza di un centro scelto quale punto di riferimento. La ‘consulenza’ avviene per via telematica, perché PerFect® prevede la costituzione di una rete informatica tra esperti e reparti di medicina e pneumologia. In questo senso possiamo pensarlo come un progetto di telemedicina. Il paziente ha il vantaggio di non doversi muovere né cambiare il centro a cui fa riferimento. È come se avesse intorno a lui un pool composto dai migliori esperti che si occupano della sua diagnosi, e se è necessario anche di valutarlo nel tempo confrontandosi in rete quando ci sono gli esami di controllo. In questo senso è un ottimo esempio di rete costruita intorno alle esigenze del paziente”.