di Arianna Urbani
Secondo gli Indiani i semi di Carambola guarirebbero dalla febbre e dalle epatiti.
Ancora una volta sono i climi tropicali e subtropicali a offrirci una pianta dal frutto tanto raro quanto prelibato: l’Averrhoa Carambola, più volgarmente chiamata “carambola”. Originaria dello Sri Lanka, dell’India e della Malesia ma tipica in realtà di tutto il sud-est asiatico, dove viene coltivata da molti secoli, è arrivata nei mercati occidentali piuttosto di recente anche se il suo nome sembrerebbe ricordare quello del celebre medico arabo Averrhoè, vissuto a Cordova nella seconda metà del XII secolo. Si tratta di un albero sempreverde a crescita lenta che con il tempo può anche raggiungere i 12 metri di altezza, nonostante la media generale si aggiri intorno ai 5 metri. Appartenente alla famiglia delle Oxalidacee, che si compone di 8 generi e più di 900 specie diverse, questa pianta a comportamento cespuglioso, presenta una chioma ampia e tondeggiante. Le foglie sono caduche, allungate e disposte quasi a spirale, lunghe 15 – 20 centimetri, e spesso sono accompagnate da piccoli fiori di colore rosso o viola. La Carambola non richiede particolari tipi di terreno per crescere, avendo un’alta adattabilità, tuttavia ha uno sviluppo più rigoglioso in terreni subacidi. Diverso il discorso legato all’altura: generalmente è coltivata al di sotto dei 500 metri, a eccezione dell’India dove si trova a un’altitudine superiore ai 1000 metri. Difficilmente si adegua a climi rigidi, tollerando per brevissimi periodi di tempo temperature basse fino ai -2 °C. Necessita di una quantità di acqua abbondante, che le permette, nelle zone tropicali, di fruttificare tutto l’anno. In condizioni climatiche ottimali fiorisce e dà frutti di continuo, per cui si possono avere contemporaneamente su uno stesso albero fiori, frutti acerbi e frutti maturi. Il frutto, con un peso compreso tra i 70 e i 130 grammi, è una bacca allungata gialla dalla polpa succosa, con sottili semi marroni. Questo è facilmente riconoscibile dalle cinque punte che lo costituiscono e che, una volta affettato, lo fanno assomigliare a una stella marina (da qui il soprannome di “frutto a stella” o “star-fruit”). Molto particolare il suo gusto che racchiude il sapore di diversi frutti, come limone, l’ananas e prugna. Bisogna in realtà distinguere due varietà di carambola: alcune sono dolci e leggermente acidule, mentre altre hanno un gusto piuttosto aspro. In entrambi i casi, dai succhi sono ricavati prelibati liquori, mentre la polpa può essere trasformata in canditi.
Grazie alla loro particolare forma, poi, i frutti di carambola sono molto utilizzati come decorazione negli aperitivi e nella preparazione di bevande esotiche e come guarnizione in pasticceria. Presente sul mercato tutto l’anno, grazie alle sopra citate proprietà decorative, l’importazione di carambola proveniente principalmente dalla Malesia è più intensa durante il periodo natalizio. Tra le sue qualità va ricordato il bassissimo contenuto calorico: soltanto 31 calorie ogni 100 grammi, un rapporto molto al di sotto la media di qualsiasi altro frutto tropicale. Inoltre contiene pochissimi grassi ma è ricca di vitamine, in particolare quella C, con il suo potere antiossidante e immunitario; e di potassio, importante per la protezione dei muscoli e delle ossa, per riequilibrare la presenza di liquidi nell’organismo e per aiutare il corretto funzionamento del sistema cardiovascolare. L’abbondante quantità di fibre, infine, conferisce al frutto proprietà digestive, utili per regolarizzare l’intestino. Queste proprietà hanno favorito il suo impiego nella medicina tradizionale per il trattamento di alcuni stati patologici, come cefalea, nausea, tosse, insonnia, ipertensione e diabete anche se, c’è da dire, secondo le popolazioni locali della Guyana francese, l’assunzione esagerata di tale frutto può creare problemi di carattere renale. Gli indiani, al contrario, sono fermamente convinti che nella carambola, e in particolare nei suoi semi, si nasconda una panacea senza eguali per curare gli stati febbrili e le malattie infettive del fegato. Si tratta però solamente di tradizioni che oggi non trovano ancora riscontri concreti nella medicina ufficiale ma che sarebbe un errore scartate del tutto in attesa di studi clinici più accurati.