L’assistenza sanitaria non va: sprechi, risorse sempre più insufficienti, prestazioni sempre meno soddisfacenti. Tutta colpa delle Regioni
Al recente congresso nazionale dei Medici di Famiglia l’ex direttore generale dell’AIFA oggi direttore esecutivo dell’EMEA (agenzia europea del farmaco), Guido Rasi, ha infiammato la platea al grido: “ci sono 23 cancri (in verità sono 20) in questo paese e sono le regioni”. A Rasi, che probabilmente ha sottostimato il numero dei siti tumorali, ha risposto, piccato, il governatore della Toscana, Enrico Rossi: “un attacco così violento e indiscriminato contro le Regioni non può che stupire soprattutto se a lanciarlo è un certo signor Rasi a suo tempo messo all’Agenzia del farmaco sulla base delle peggiori logiche spartitorie nazionali”. Sicuramente eccessiva, di puro effetto mediatico l’affermazione di Rasi, ma la risposta di Rossi è una non risposta semmai un autentico autogol per la già tanto discussa e poco apprezzata classe politica che rappresenta. Ma chiudiamo qui la polemica innescata da Rasi che tuttavia, al di là degli eccessi verbali e della iperbole, a cui nessuno sembra ormai più rinunciare, un problema di fondo lo pone: il ruolo delle Regioni nell’architettura costituzionale del nostro paese e in particolare nella sanità. Già la nascita delle Regioni fu un parto lunghissimo, di anni, laborioso e alla fine distocico.
Basti pensare che la Costituzione stabilisce, ottava disposizione transitoria, che entro un anno dalla sua entrata in vigore, ossia il primo gennaio del 1949, dovevano essere indette “le elezioni dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”. Nel ’53 fu approvata, inutilmente, la legge 62 sulla costituzione e funzionamento degli organi regionali (legge Scelba). Nel ’68, con la legge 108, si replica e questa volta con successo, visto che il 7 giugno del 1970 si eleggono i primi consigli regionali, che prima di entrare in funzione dovevano approvare i propri statuti, che, a loro volta, sarebbero stati approvati dal Parlamento. La storia ci dice che ci sono voluti ventidue anni per le Regioni, mentre per le Province, oggi in via di liquidazione, solo tre (1951). In verità l’istituto regionale non ha mai riscosso particolare entusiasmo.
Chi vedeva in esso una minaccia per l’unità d’Italia, chi temeva che “partiti totalitari” potessero “impadronirsi”, in considerazione dei risultati del 18 aprile del 1948, di regioni quali l’Emilia, la Toscana, l’Umbria, cosa che, democraticamente, e senza essere “totalitari” è avvenuto fino ai nostri giorni. Poco affetto anche da parte dei cittadini, poi, che normalmente si identificano con la propria città o paese, qualche volta con la provincia di nascita, quasi mai con la regione di appartenenza, e hanno avvertito le regioni come fastidiose sovrastrutture, moloch burocratici, fino al discredito totale dovuto all’uso disinvolto e illecito dei rimborsi spesa praticato dalla unanimità, o poco meno, dei consiglieri regionali. La corsa delle regioni per recuperare credibilità parte con un pesante handicap, né la riforma del titolo quinto con la legge n. 3 del 2001, che riconosceva, all’articolo 117, potestà legislativa alle regioni con l’individuazione delle materie “concorrenti” è riuscita a rilanciare l’istituto regionale, intrisa com’è di forti contraddizioni tanto che, a suo tempo, arrivammo a coniare un apposito ossimoro: il “federalismo centralista”.
Il pendolo centralismo-autonomie locali ha continuato a oscillare e proprio in sanità gli interventi legislativi nazionali sono stati maggiormente ondivaghi e incoerenti rispetto ai principi riformatori del titolo quinto, dando vita, fin da subito, a un contenzioso Stato-regioni che ha costretto la corte costituzionale a ripetuti interventi. A questo punto prima ancora di pensare a nuove leggi e appassionarci a nuovi modelli di assistenza sanitaria, di produzione propria o di importazione, e dopo aver leggiferato per 20 anni, 503/92, 517/93, 229/99 ogni legge finanziaria, ogni decreto omnibus, bisogna arrivare alla conclusione che è tutto l’impianto costituzionale che va rivisto e che deve avere una forte coerenza intrinseca, ridefinendo con chiarezza ruoli e competenze. In pratica o andiamo verso la completa realizzazione di 20 repubbliche sanitarie, dove i principi universalistico e solidaristico propri della sanità si realizzano nell’ambito dei confini della regione, o torniamo al Servizio Sanitario Nazionale opportunamente riscritto. Tertium non datur! La nostra costituzione deve essere salvaguardata e difesa nei suoi sacri principi fondamentali che non conoscono i segni del tempo ma l’articolazione organizzativa deve accompagnare la trasformazione, nel suo profondo, della società italiana. (Una voce fuori campo: sì… ma a chi lo dici?).