di Vincenzo Panasiti Dermatologo, Università Campus Bio-Medico di Roma
Alla comparsa del sintomo più mite, diciamo le labbra screpolate, balzo subito alla conclusione: forse è indizio di un tumore al cervello. O forse di cancro al polmone. In un caso ho pensato fosse mucca pazza ha raccontato Woody Allen, forse il più famoso fra chi vive con ansia il rapporto con la propria salute. Perché il dolore e la malattia non sono uguali per tutti. A dirlo non è solo l’esperienza di ogni medico, ma la cosiddetta Medicina Narrativa, per la quale il racconto dei pazienti e di chi se ne prende cura è uno strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Si pensa, infatti, che tenendo conto della pluralità delle prospettive, si possano rendere le decisioni clinico – assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate. L’obiettivo finale è una maggiore partecipazione dei soggetti coinvolti nelle scelte e un percorso di cura personalizzato, appropriato e in linea con le indicazioni della evidence-based medicine; ma anche migliorare la fiducia e l’alleanza terapeutica fra il medico e i suoi assistiti. Comprendere il paziente e la sua malattia oltre che facilitare la cura amplia le capacità empatiche, riflessive, di ascolto e aiuta a prendersi cura della persona con le sue emozioni, paure, speranze. E soprattutto con le sue ansie. Non stiamo parlando di persone affette da quel disturbo da ansia di malattia (DSM-5) più noto come ipocondria – che pure s’incontrano numerose nella pratica medica ambulatoriale – ma di preoccupazioni solo parzialmente irrazionali, influenzate in particolar modo da fattori correlati alla personalità ed ad esperienze di vita vissuta durante l’infanzia, come problemi di salute gravi, personali o familiari, lutti, abusi, incuria, trascuratezza da parte dei genitori. Chi non conosce pazienti che sussultano a ogni accenno di malessere, entrano nel panico di fronte a una pur lieve diagnosi, balzano subito a conclusioni drammatiche e richiedono una cura immediata, rapida ed efficace? Alla comparsa di una lesione cutanea pensano alle patologie più gravi, di fronte a una verruca evocano il rischio di un tumore, e se li si informa che una cheratosi attinica può evolvere in un carcinoma squamo-cellulare temono subito il peggio. Superfluo ricordare che l’ansia è uno stato psicologico causa di stress. Come riconoscere questi pazienti? È facile osservare reazioni psicosomatiche (aumento della frequenza cardiaca, della ventilazione polmonare, della sudorazione, nausea, vomito, tremori). A questi soggetti, poi, tutte le diagnosi e le cure prescritte dal medico sembrano quasi sempre troppo lente se non inadeguate e il tutto si accentua se c’è già un certo grado di depressione. Se richiedono una cura rapida e immediata sono convinti che la loro malattia ove non curata prontamente comporti anche il rischio di morire; hanno un atteggiamento apprensivo, da perfezionista insicuro. Prendiamo a esempio il problema delle emorroidi: la prima cosa che tutti desiderano è trovare un rimedio il più possibile rapido e veloce per risolvere il problema perché ogni gesto quotidiano, anche il più semplice, diventa un vero inferno. Ma mentre ci sono pazienti che accettano di iniziare la cura con una dieta ricca di fibre da mantenere per mesi, e ottengono una buona percentuale di successi, altri chiedono subito terapie per eliminarle rapidamente, anche se devono sottoporsi ad interventi chirurgici, che necessitino di anestesia di tipo locale o generale. Il dolore che si dovrà sopportare ed una convalescenza più o meno breve non sembrano fungere da ostacolo. Lo stesso avviene per la cura di una verruca o dei condilomi, quando la scelta è fra una terapia topica più lenta e un intervento di eradicazione più costoso e forse più fastidioso, che può mostrare immediatamente la sua efficacia. Secondo gli psicologi la scelta delle persone più ansiose si orienterà verso l’intervento più radicale, nonostante poi le stesse si lamenteranno maggiormente per fastidi ed effetti indesiderati che pure erano stati ben descritti dal medico curante. Si evince che la prescrizione consapevole del trattamento medico solleva problematiche differenti e che entrano sempre in gioco vari fattori: dalla natura della patologia (lieve, acuta, cronica ecc.), alla tipologia del trattamento proposto (di breve o di lunga durata, invasivo o non invasivo, statisticamente efficace o di scarsa/incerta efficacia, farmacologico o chirurgico, tale da richiedere ospedalizzazione o meno, ecc.) e ancora, la situazione esistenziale in cui si trova a vivere il paziente (età, contorno familiare, socio-culturale, economico ed etnico; il contesto sanitario e assistenziale nell’ambito del quale egli deve ricevere il trattamento, ecc.). Emerge perciò un quesito non facilmente risolvibile: bisogna consigliare di affrontare la malattia più rapidamente, aumentando l’efficacia del trattamento ma con qualche lamentela iniziale in più, oppure prescrivere farmaci in dosi più basse, facendo si che la cura appaia meno invasiva, meno dolorosa e con eventuali effetti secondari spalmati nel tempo? Nel secondo caso il paziente ottenendo beneficio in un più ampio intervallo di tempo, potrebbe non mantenersi aderente alla terapia. Insistendo sul fatto che ogni individuo è un caso a parte, non è facile decidere quale consiglio dare in relazione alla personalità, allo stato d’ansia, alle aspettative del paziente, dopo avergli spiegato bene i pro e i contro di ogni trattamento. È quindi un bene, per esempio, avere a disposizione due approcci molto diversi fra loro per la cura topica delle cheratosi attiniche. La prima che, a fronte di una reazione locale più intensa e visibile, permetta di offrire a chi vive con estrema ansia la possibilità di una trasformazione cancerogena in carcinoma squamo-cellulare, un trattamento rapidissimo che elimini la lesione nell’arco di 3/4 giorni, la seconda che proponga la modulazione di intensità del trattamento nell’arco di tre o più mesi. In ultima istanza, sta al medico valutare la sproporzione fra l’efficacia e la gravosità delle cure praticate e i benefici ottenibili, fermo restando che ogni trattamento va valutato bilanciandone i potenziali apporti positivi o negativi. La scelta, però, dovrebbe essere fatta non solo tenendo conto del profilo del farmaco ma soprattutto della tipologia di paziente perché in questo modo – cosa non indifferente – si potranno ottenere più risultati, sia dal punto di vista medico che psicologico. Con evidenti benefici, nel caso delle cheratosi attiniche, nel calo della possibilità di evoluzione cancerogena, ma anche nella riduzione dell’atteggiamento esigente dei pazienti più ansiosi, nei cui riguardi non è mai bene nascondere i problemi né decidere le cure in maniera autonoma.