Le fibre del gambero

di Cristina D’Onorio

Alimento caratterizzato da uno scarso apporto energetico e da un ridotto contenuto di acidi grassi saturi, per lungo tempo è stato demonizzato per il suo elevato livello di colesterolo. Dal guscio si estrae una fibra indigeribile capace di intrappolare i lipidi che così legati attraversano l’intestino senza essere assorbiti.

Il gambero insieme all’aragosta appartiene alla classe degli Artropodi e in particolare al gruppo dei Macruri, il cui corpo ha un addome allungato terminante con pinna caudale allargata a ventaglio. Da sempre considerato un cibo prelibato, ha raggiunto nei nostri mercati costi molto elevati. Dal punto di vista dietetico, il loro valore nutrizionale ha creato una serie di pregiudizi per cui, a lungo, a causa di un elevato contenuto in colesterolo, è stato sconsigliato nelle diete per le dislipidemie ipercolesterolemiche e nelle malattie cardiovascolari ischemiche, ciònonostante i gamberi abbiano un basso contenuto i acidi grassi saturi aterogeni e quindi un indice colesterolo/acidi grassi di molto più basso di altri comuni alimenti (formaggi, uovo, carne di manzo, maiale).
A questo va aggiunto che una elevata presenza di acidi grassi polinsaturi della serie Omega 3, soprattutto l’acido docosaenoico (DHA) e l’acido eicosapentoico (EPA) aumenta la capacità protettiva nei confronti delle malattie vascolari degenerative, per merito del loro effetto sul metabolismo delle prostglandine, sull’adesività piastrinica e sui dosaggi dei livelli plasmatici di trigliceridi e colesterolo.
Visto il loro alto contenuto in sodio resta invece valido sconsigliare la loro presenza in diete iposodiche. Da alcuni anni, poi, l’interesse della comunità scientifica si è concentrato su una particolare molecola contenuta nella corazza di questi crostacei: la chitina. Precursore del chitosano, fu scoperta nel 1811 dallo studioso francese H. Braconnot, nei funghi e nella corazza degli insetti.

Dopo la cellulosa, è la fibra più abbondante in natura. Oggi è ottenuta principalmente dall’esoscheletro (guscio) dei crostacei e attraverso un processo di de-acetilazione un gruppo acetilico di questo polisaccaride viene rimosso da origine a una poliglucosamina caricata positivamente che prende il nome commerciale di Chitosano. Identificato per la prima volta da uno scienziato francese, C. Rouget, nel 1859, storicamente si sono create diverse condizioni che hanno impedito al Chitosano una maggiore diffusione. Una relativa difficoltà nella tecnologia di estrazione che, apparentemente semplice, richiede sofisticati livelli di controllo se si vuole ottenere un prodotto finale di qualità. Inoltre i potenziali campi di applicazione di questo biopolimero: alimentare, farmaceutico, cosmetico, agricoltura, tessile, ne hanno quasi rallentato l’affermazione che alla fine è venuta con il riconoscimento della sua azione principale: la capacità di legarsi ai lipidi e ai grassi.
Il suo primo uso è stato infatti nella purificazione dell’acque marine dopo uno spargimento di oli, petrolio ecc., mentre in campo medico nel controllo del peso e del colesterolo. Dopo l’ingestione infatti, nelle condizioni di pH basso dello stomaco, il chitosano agisce come una fibra di natura viscosa che intrappola i lipidi, e tramite la sua carica elettrica positiva crea legami ionici con molecole caricate negativamente, come gli acidi grassi, formando sali che attraggono sempre più altri lipidi (trigliceridi, bile e acidi grassi, colesterolo e altri steroli). Questo composto non è attaccabile dall’acido idrocloritico e procedendo nell’intestino, a pH più alti, precipita formando particelle microglobulari che attraggono altri lipidi aumentandone la dimensione. In questa maniera i trigliceridi sfuggono alla degradazione da parte delle lipasi e riescono a essere escreti nelle feci insieme al chitosano stesso.
In altre parole esso agisce come una “spugna dei grassi” arrivando a legare una quantità di lipidi fino a 5 volte il suo peso. Per questo il suo uso si è imposto come sostanza capace di ridurre il livello di lipidi e di colesterolo nel sangue e di abbassare la pressione sanguigna. Molti studi clinici hanno confermato queste proprietà. In uno studio doppio cieco condotto su 80 adulti obesi, Veneroni e al. riportarono una diminuzione in peso corporeo pari all’11,2% in pazienti trattati con chitosano in confronto al 4,2% del gruppo di controllo, mentre il colesterolo totale calava del 23,9% contro il 10,4%, il colesterolo LDL del 33,4% vs 12,1%, e una riduzione dei trigliceridi pari al 23,5% vs 9,3% del gruppo di controllo.
Contemporaneamente la frazione HDL del colesterolo aumentava del 10,2% a fronte di un 3,5% del gruppo placebo. L’aggiunta di acido ascorbico potenzia ulteriormente il suo potere legante nei confronto dei grassi. Altre attività terapeutiche che sono attualmente allo studio sono un’azione antiacida (per la particolare composizione chimica della fibra), la velocizzazione del riconsolidamento delle fratture ossee (migliora l’assorbimento del calcio a livello intestinale) e l’ azione antireumatica (la flora batterica intestinale è in grado di degradare parzialmente il chitosano liberando glucosammina la quale ha una buona efficacia antinfiammatoria nell’artite). Il livello di sicurezza di questa sostanza è buono, ma come per tutte le fibre dietetiche c’è il rischio potenziale che si crei una interferenza con l’assorbimento intestinale di sali minerali e vitamine lipidosolubili. Inoltre è sconsigliato alle persone che soffrono di allergie certe nei riguardi dei crostacei o di interrompere immediatamente l’assunzione ai primi sintomi perché, in prodotti di bassa qualità, possono rimanere residui allergenici. A causa del diminuito assorbimento di vitamine liposolubili il chitosano è controindicato anche in gravidanza e durante l’allattamento.