di Antonello Sacchetti
Il dibattito sui cibi transgenici è stato uno dei tormentoni dell’estate. Articoli, interviste, convegni scientifici ed interventi politici si sono susseguiti in un incalzare di accuse, proteste e smentite.
Ma cosa sono esattamente i cibi transgenici? Si tratta di cibi (soprattutto vegetali) modificati geneticamente per essere prodotti più facilmente. L’esempio più usato è la “fragola pesce”: per rendere possibile la coltivazione delle fragole anche in climi molto freddi, è stato introdotto nel DNA un gene di un pesce che vive nel Mare del Nord. Gordon Conway, docente di tecnologia ambientale all’Imperial College di Londra ha dichiarato: “Bastera’ trasferire nei chicchi di riso la vitamina A oggi contenuta nelle foglie e si potra’ salvare la vista e la vita a 120 milioni di bambini”. Scrive sul Guardian Bernard Dixon, dirigente della Federazione europea per le biotecnologie: “Non c’è dubbio. Grazie all’ingegneria genetica, l’agricoltura del Terzo e Quarto Mondo non vedra’ più andare perdute quelle alte percentuali di raccolto che oggi finiscono in pasto a insetti e parassiti”. Tra vent’anni gli attuali 750 milioni di persone sottonutrite saliranno a circa tre miliardi. Per Claudio Peri, docente dell’Università di Milano, nella lotta alla fame saranno fondamentali i terreni coltivati con sementi transgeniche che entro l’anno 2000 saranno circa 60 milioni di ettari. Ma allora perché i cibi transgenici hanno scatenato tante proteste? Il cosiddetto Frakenfood potra’ fare impressione, ma non è detto sia pericoloso. E’ infatti dimostrato che i cibi geneticamente modificati non creano alcun problema di tipo assimilativo a livello di digestione. Gli enzimi e gli acidi che agiscono nel nostro corpo non hanno problemi a digerire eventuali alimenti per metà fragole e per metà pesce e agiscono in modo da scomporre tutte le sostanze ingerite in sub unita’ di zuccheri, grassi, proteine e altre molecole semplici. Dov’è allora il problema? Al di la’ delle remore dei “conservatori alimentari”, esistono indubbiamente dei rischi. Se, infatti, vengono rinforzate alcune specie in modo da resistere a malattie, queste produranno polline (quasi sempre sterile) che, andando a fecondare specie normali, potrebbero causarne l’estinzione. Per preservare il pool genetico di tutte le specie, basterebbe coltivare le piante transgeniche in serra o sotto tunnel. Certo, esiste il sospetto che la migrazione di eventuali tossine dagli organismi geneticamente modificati (OGM) possa provocare malattie anche gravi. Esiste d’altro canto un regolamento varato nel gennaio 1997 dal parlamento e dal Consiglio europeo, direttamente applicabile agli stati membri, che vincola l’introduzione nel mercato degli OGM ad un severo controllo per tutelare la salute del consumatore. Ma non basta ad allontanare la sensazione di una minaccia incombente sulla biodiversita’. Spiega il professor Peri: “Quando si mette a punto una coltura di elevata produttivita’, le varietà indigene, patrimoni genetici potenzialmente interessanti, vengono emarginate e talora si perdono.
Ecco una questione che le agenzie mondiali dello sviluppo, come la FAO, debbono considerare con la dovuta attenzione, prendendo le necessarie contromisure”. Da un rapporto riservato in possesso del governo inglese risulterebbe che molte piante rischiano di scomparire dal pianeta se si diffondono soia, grano, cotone e verdure transgeniche. A Cartagena (Colombia) 175 paesi hanno richiesto un accordo internazionale sulla biodiversita’. Alla base del loro malcontento c’è soprattutto l’opposizione all’oligopolio dell’agricoltura mondiale creato dalle biotecnologie.
La svolta risale al 1987: il Patent and Trademark Office degli USA emette un decreto in cui dichiara che le componenti di creature viventi (geni, cromosoni, cellule e tessuti) sono brevettabili e possono essere considerate proprietà intellettuale di chiunque ne isoli per primo le proprietà, ne descriva le funzioni e ne individui applicazioni commerciali utili. Nel giro di pochi anni, alcune multinazionali (Monsanto, Novartis, AgroEvo, Dupont e Zeneca le principali) hanno “brevettato” (ritoccandole geneticamente) moltissime piante e le hanno rivendute a prezzi di monopolio alle popolazioni che avevano coltivato da sempre quelle piante. Non solo: la Delta & Pine Land Co.
E il Department of Agriculture degli USA hanno ottenuto uno storico brevetto su una tecnologia di sterilizzazione delle sementi che impedisce all’agricoltore di ripiantare i semi ottenuti dal raccolto. Il processo (realizzato mediante un gene che, irrorato da un composto chimico, agisce da inibitore impedendo al seme di essere fertile) è stato applicato con successo al tabacco e al cotone. Qualcuno l’ha definita terminator technology. L’India, a scanso di equivoci, l’ha messa al bando. E’ evidente che siamo ad una svolta epocale, in cui rischiano di essere travolte le regole che per migliaia di anni hanno regolato l’agricoltura. L’espansione delle multinazionali sul controllo delle varie attivita’ della vita umana sembra non conoscere limiti. Alcuni anni fa, un caso giudiziario in California, rischia di diventare un precedente importante per la vita di milioni di persone. Un uomo d’affari dell’Alaska, John Moore, malato di una rara forma tumorale, era in cura presso la clinica universitaria della UCLA. Un medico ricercatore scopri’ che il tessuto della milza di Moore produceva una proteina ematica che favoriva la moltiplicazione dei globuli bianchi, importanti agenti antitumorali. Dai tessuti di Moore, la UCLA produsse una coltura cellulare che nel 1984 venne brevettata come “invenzione”. Oggi questa coltura vale più di 3 miliardi di dollari. Moore cito’ la UCLA, reclamando un diritto di proprietà sulle proprie cellule. Nel 1990 la Corte Suprema della California rigetto’ l’istanza di Moore, affermando che la coltura cellulare (non i tessuti) del signor Moore doveva essere considerata proprietà intelettuale della UCLA. Da allora molte aziende farmaceutiche hanno cominciato a muoversi nella stessa direzione. Nel 1999 il governo dell’Islanda ha firmato un accordo con Roche Holding Ag: per 200 milioni di dollari la casa farmaceutica svizzera ha il diritto di sottoporre a screening genetico tutta la popolazione islandese (270mila persone) nella speranza di trovare geni utili alla ricerca. In futuro, se un islandese vorra’ utilizzare le informazioni o i prodotti derivati dalla ricerca, dovra’ pagare la Roche. Ecco, forse a spaventare non è tanto la manipolazione, ma il monopolio della genetica. Che l’innovazione sia figlia soprattutto della ricerca del profitto non è una novita’, ma qui c’è in ballo un’immensa ristrutturazione della natura, dell’agricoltura, del cibo. E’ perciò indispensabile garantire che questa immane trasformazione non sia affidata totalmente alle multinazionali, ma regolata da norme precise che tutelino la salute del consumatore e non distruggano colture e culture.