Alcuni punti di riflessione sulla Dermatite Seborroica

Lo stato dell’arte della ricerca sulle cause della Dermatite Seborroica e sui nuovi approcci terapeutici anche alla luce delle ultime evidenze scientifiche internazionali

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi volti a indagare le cause della Dermatite Seborroica (DS). Le tante ricerche e osservazioni, hanno reso possibile la definizione di un quadro abbastanza chiaro del suo processo patogenetico, che ne ha facilitato la condivisione scientifica attraverso convegni, webinar, master, e via dicendo. Vale la pena di ricordare che spesso la scienza avanza a piccoli passi, e la più recente letteratura internazionale conferma la validità, seppur parziale, delle tante ipotesi patogenetiche che si sono avanzate nel tempo e che hanno portato a individuare la dermatite seborroica come un disturbo infiammatorio cutaneo a carattere recidivante, caratterizzato dalla formazione di una desquamazione giallo-untuosa e chiazze eritematose scarsamente definite. Confermata anche la sua epidemiologia: insorge nel 3-5 % della popolazione con poca distinzione tra etnia e sesso, sebbene tenda a manifestarsi in maniera più severa nell’uomo. Generalmente si sviluppa dall’adolescenza e pare avere un picco intorno ai 40 anni di età. I fattori che la con-causano, trattandosi di un disturbo multifattoriale, vengono identificati in un aumento della seborrea, l’alterazione dell’equilibrio del microbiota cutaneo e lo sviluppo di uno stato infiammatorio localizzato. Tre ipotesi che in tempi diversi sono state di volta in volta indicate come la causa principale della patologia, ma oggi sono viste come fenomeni interconnessi e con pari responsabilità. L’eccesso di sebo, e l’elettiva localizzazione della patologia nei distretti corporei ove si concentrano le ghiandole sebacee (regioni retro-auricolari, sopraccigliari, le pliche naso-geniene, linee di demarcazione con il cuoio capelluto, regioni interscapolare, pre-sternale e genitale), facilita la formazione di squame untuose di colore giallo di dimensioni variabili tramite l’unione di sebo e lamine corneocitarie desquamative. Altri studi hanno correlato l’eccesso di sebo con l’aumento proliferativo di alcune specie del microbiota cutaneo, tra cui i batteri Staphylococcus (specialmente S. aureus e S. epidermidis) e i miceti Malassezia (in particolare M. globosa, M. furfur e M. restricta). Di conseguenza, la responsabilità è stata attribuita alle lipasi da loro prodotte, capaci di scindere i trigliceridi sebacei attraverso idrolisi della molecola con formazione di glicerolo e acidi grassi liberi, la cui concentrazione risulta infatti maggiore nel sebo delle nelle regioni cutanee affette, rispetto a quelle sane. Glicerolo e gran parte degli acidi grassi sono metabolizzati dal microbiota come fonte di nutrimento, mentre la rimanente componente di acidi grassi liberi insaturi risulta avere carattere pro-infiammatorio e porta quindi allo sviluppo di eritema e desquamazione. Quest’ultima è inoltre favorita da un sebo carente in Acido linoleico, principale acido grasso essenziale a livello epidermico, fondamentale per il mantenimento dell’integrità strutturale dello strato corneo. Il sebo del paziente con DS ha quindi una duplice alterazione: quantitativa e qualitativa. Da non dimenticare poi i fattori scatenanti: assunzione di farmaci (litio, aloperidolo, clorpromazina, etc.), deficit nutrizionali, squilibri ormonali, disturbi neurologici e degenerativi, immunosoppressione e stress psicofisico. Gli obiettivi terapeutici hanno sempre privilegiato l’eliminazione dei segni clinici e dei sintomi associati come il prurito, oppure il mantenimento della remissione a lungo termine. I rimedi più comunemente usati sono gli agenti antimicotici e anti-infiammatori topici, ma alcune di queste molecole non possono essere utilizzate per periodi prolungati a causa di progressiva perdita di efficacia, effetti rebound o troppa aggressività. Per questi motivi, la loro efficacia è ritenuta piuttosto modesta, con frequenti recidive e riacutizzazioni della patologia. Un esempio è l’utilizzo di sostanze ad attività cheratolitica, tipo l’acido salicilico, per la rimozione delle squame untuose. Se tale azione ha lo scopo di facilitare il distaccamento delle lamelle corneocitarie che altrimenti permarrebbero più a lungo, dall’altro, la semplice azione cheratolitica non elimina il problema ma semmai ne riduce la possibilità di osservazione. La desquamazione è frutto di una barriera cutanea compromessa, danneggiata, e l’azione demolitrice del cheratolitico non è certo in questo senso curativa. Ciò che risulta utile, invece, è piuttosto un’azione costruttiva, cheratoplastica, che favorisca il ripristino dell’integrità della barriera cutanea contrastando la desquamazione attraverso un approccio funzionale. Ed ecco quindi che appare preferibile non scegliere una terapia monocausale ma un approccio globale, utilizzando prodotti con attività seboregolatrice e cheratoplastica, oltre che antimicotica e lenitiva.